Il codice di condotta dei dipendenti pubblici tra dimensione etica e sfera giuridica

Il codice di condotta dei dipendenti pubblici
tra dimensione etica e sfera giuridica

di Paola Torretta*

1. Le regole del diritto si differenziano dalle regole morali in quanto non limitate alla sfera interiore dell’individuo, ma destinate ad avere un riflesso anche esterno, essendo dettate dalla necessità di oggettivare comportamenti ritenuti necessari in ordine al conseguimento degli scopi primari di un gruppo sociale .
Ma la linea di demarcazione non è così netta e facilmente individuabile: alcune condotte, particolarmente quelle aventi una rilevanza pubblica, non possono essere lasciate all’autogoverno, alla determinazione della sola coscienza del singolo e, dunque, a mere regole morali; ma nemmeno possono essere disciplinate esclusivamente da norme giuridiche. In simili circostanze, accanto ad un’etica privata, si impone altresì un’etica pubblica , ed occorre perciò ricondurre siffatti comportamenti anche a valutazioni di correttezza, le quali, pur non potendo scaturire dalle regole del diritto in senso stretto, risultano capaci di produrre, indirettamente, ma inevitabilmente, norme giuridiche.
Molto stretto diviene dunque il legame tra norma deontologica e norma giuridica , poiché spesso quest’ultima si dimostra insufficiente a disciplinare una fattispecie in cui la componente etica prevale sul piano più propriamente giuridico, rivelando la sua inadeguatezza a darne una qualificazione senza il supporto – e magari il concorso – di una regola deontologica, capace di fornire le necessarie indicazioni per definire il tipo di condotta, ai fini della sua distinta previsione normativa.
Tutto ciò denota come, in linea più generale, in alcuni casi la norma eteronoma abbia bisogno di indirizzi che provengano dal basso, dallo stesso gruppo sociale che il diritto si propone di regolare, e che si esprimono in interventi di natura deontologica. La norma etica, dunque, altro non è che l’espressione di un potere di autonormazione, di autodisciplina, ovvero la manifestazione di regole condivise perché affidate alla autonomia e disponibilità dello stesso gruppo sociale, nonché dettate dall’esperienza concreta dei soggetti destinatari della norma medesima.
Significativo si rivela allora il ruolo svolto dalle regole di condotta, strumentali rispetto all’esigenza di formulare giudizi tesi alla valutazione oggettiva di comportamenti in virtù non di criteri forniti dalla norma giuridica, bensì del parametro della correttezza; la funzione delle norme etiche consiste appunto nel contribuire a dar forma e contenuto a categorie di comportamenti giudicati opportuni, meritevoli di tutela, o addirittura indispensabili sulla base di un giudizio di correttezza.
La norma deontologica serve allora a fornire un quid pluris, un elemento ulteriore, in ordine a particolari situazioni per le quali un giudizio esclusivamente fondato tanto sulla morale individuale , quanto sulla sua mera qualificazione giuridica, non potrebbe che rivelarsi insufficiente, poiché non in grado di garantire la corrispondenza del comportamento umano ad un modello tipizzato in cui si mescolano elementi e valori sia etici sia giuridici.
La norma deontologica si pone, cioè, in uno spazio intermedio tra la regola morale – appartenente alla sfera personale – e quella giuridica, incapace da sola di fornire una soluzione normativa comprensiva di ogni aspetto del comportamento regolato. Essa, quindi, pur non avendo l’efficacia propria della norma positiva, riesce a trasferire su un piano giuridico-oggettivo quelle espressioni della condotta umana che servono ad integrare e precisare – in quanto rilevanti, perché trascendenti la sfera individuale – una fattispecie contemplata dal diritto.
La rilevanza di siffatte norme è palese nella constatazione che la loro assenza non può che tradursi, nei confronti dell’individuo, nella carenza di una guida circa i principi, di ordine non giuridico ma etico, che devono ispirarne la condotta e, al pari, nella indeterminatezza delle disposizioni normative chiamate a delineare eventuali violazioni poste in essere, alle quali il diritto collega l’irrogazione di una sanzione disciplinare.
La ricerca di una dimensione etica si estende ad ogni campo di esplicazione della personalità umana, ma l’esigenza di un suo approfondimento si manifesta in modo ancora più evidente nell’ambito di quelle particolari attività del singolo, quali lo svolgimento di una funzione sociale o di un’attività lavorativa. Attività che la Costituzione ritiene essenzialmente rivolte, oltre che alla promozione e allo sviluppo della persona, al progresso materiale e spirituale della comunità (art. 4, comma 2), e che sono di conseguenza sottoposte a (e orientate da) precise regole – non solo giuridiche – dettate al fine di disciplinarne l’esercizio.
E ciò in misura ancora maggiore quando la prestazione lavorativa trova collocazione in un settore, quello pubblico, al quale è sottesa la finalità primaria della cura del bene comune.
L’impiego alle dipendenze della Pubblica Amministrazione – nonostante il percorso di progressivo avvicinamento al modello privatistico avviato dal d. lgs. 29/1993  – non può infatti non assumere quella peculiare connotazione che deriva dall’essere la prestazione lavorativa inserita in una complessa azione (pubblica) orientata al perseguimento dell’interesse della collettività e dunque suscettibile di essere valutata anche in relazione a questa sua particolare destinazione.
E’ evidente, dunque, l’apporto che un codice etico può fornire in questo delicato contesto, dove le esigenze di autonomia nell’organizzazione del lavoro si intersecano e si misurano con le finalità istituzionali alle quali l’attività dell’apparato burocratico è preordinata.
La cornice di valori disegnata dalle norme deontologiche si dimostra idonea a fissare i contorni di una condotta che sia non solo conforme alle esigenze di organizzazione della attività professionale proprie del datore di lavoro privato – quale nuova veste della Pubblica Amministrazione -, ma altresì rispondente ai principi di imparzialità, legalità e trasparenza che ispirano l’azione del potere pubblico. Il passaggio più delicato consiste proprio nella sintesi di tutti questi valori, che rischierebbero di rimanere delle formule vuote se non intervenissero a darvi sostanza i canoni di diligenza, obbedienza e integrità che guidano il dipendente nell’espletamento delle mansioni affidategli, e che si propongono di migliorarne il rendimento in servizio, non solo sotto il profilo quantitativo, ma anche della qualità della prestazione svolta.
Il lavoro del funzionario pubblico deve, infatti, presentare i caratteri di un attento e scrupoloso servizio, reso esclusivamente a favore della Nazione (art. 98, comma 1, Cost.), essendo la manifestazione immediata dell’obbligo di fedeltà che lega il medesimo alla Amministrazione di appartenenza.

2. L’opportunità di un complesso di regole sull’esercizio di pubbliche funzioni nell’ambito del rapporto di impiego con le Amministrazioni si è manifestato, già all’inizio del processo di parificazione normativa tra lavoro pubblico e privato, ma le modalità con cui si è provveduto alla elaborazione di un codice di condotta dei pubblici dipendenti hanno sollevato non poche questioni, rendendone controversa la natura giuridica nonché l’efficacia.
Da subito, infatti, la previsione contenuta nell’art. 58 bis del d. lgs. n. 29/1993 (ora art. 54 d. lgs. n. 165/2001)  di un codice predisposto dal Dipartimento della Funzione Pubblica , e recepito, in allegato, dai contratti collettivi secondo le direttive impartite dal Presidente del Consiglio dei Ministri all’ARAN è apparsa, in via generale, di difficile coordinamento con il disegno normativo improntato alla contrattualizzazione dell’impiego alle dipendenze della Pubblica Amministrazione .
In modo specifico, una simile disposizione normativa, che affidava al codice di condotta il compito di evidenziare i doveri del dipendente pubblico, si mostrava non molto in linea con il successivo art. 59 (ora art. 55 d. lgs. 165/2001), che invece demandava alla contrattazione collettiva la facoltà di definire le infrazioni disciplinari e le relative sanzioni.
La difficoltà di scindere il momento dell’enunciazione dei criteri di un corretto svolgimento degli incarichi lavorativi – ai quali sono riconducibili gli obblighi di diligenza, lealtà e imparzialità che appunto ne integrano l’esatto adempimento – dalla fase della concreta previsione delle condotte censurabili , produce, infatti, la sensazione di uno sdoppiamento dello status e del potere disciplinare, in parte rimessi ad un soggetto (pubblico) estraneo alle logiche della negoziazione (per l’individuazione dei principi che devono guidare la condotta del lavoratore), e in parte invece devoluti al sistema privatistico (per la elaborazione puntuale dei comportamenti suscettibili di valutazione disciplinare). Sul punto, cioè, il quadro normativo viene a subire una forte complicazione, per l’insistenza sulla materia della responsabilità disciplinare di due fonti, con il conseguente rischio di pericolose sovrapposizioni. 
Nondimeno, è da chiedersi, al riguardo, se la tendenza attuale ad una graduale espansione della regolamentazione negoziata, fino ad occupare ogni spazio relativo al rapporto e alle condizioni di lavoro, sia in grado di cancellare ciascuna delle connotazioni peculiari presenti nel campo del pubblico impiego o, più realisticamente, possa solo attenuare, senza tuttavia eliminare, quelle irriducibili specialità del lavoro alle dipendenze della Pubblica Amministrazione. Esso, infatti, per alcuni aspetti (e la materia disciplinare è uno di questi) non può prescindere da una disciplina minutamente articolata, che preveda anche l’apporto di norme esterne alle clausole contrattuali, le quali, in questa specifica ipotesi, si sostanziano in regole etiche, espressione di una regolazione settoriale integrativa delle norme pattizie.
Del resto, anche il Giudice costituzionale rileva, nella sentenza n. 309 del 1997, come l’attrazione del pubblico impiego “nell’orbita della disciplina civilistica” si verifichi “per tutti quei profili che non sono connessi al momento esclusivamente pubblico dell’azione amministrativa”. Il nucleo essenziale dell’organizzazione, dunque, non può che rimanere affidato “alla massima sintesi politica espressa dalla legge nonché alla potestà amministrativa nell’ambito delle regole che la stessa Pubblica Amministrazione previamente pone”.
La concreta emanazione del codice di comportamento dei dipendenti pubblici approvato dal Governo nel 1994 , ha accentuato le già radicate perplessità circa una “contaminazione pubblicistica”  nella disciplina del rapporto di lavoro e nell’autonomia contrattuale. Con il richiamo agli obblighi di diligenza, imparzialità e lealtà nell’adempimento delle funzioni, l’art. 1 non poteva in effetti non rappresentare una interferenza nella delineazione del contenuto essenziale della prestazione lavorativa . A rafforzare una simile impressione contribuiva, poi, il seguito di tale disposizione, che sanciva l’impegno di ciascun dipendente ad osservare le statuizioni del codice di condotta all’atto dell’assunzione in servizio. E’ evidente come una simile previsione a fatica si conciliasse con il compito di specificare gli obblighi del lavoratore proprio dell’autonomia contrattuale .
Anche la successiva prassi legislativa “integrativo-correttiva” non ha del tutto dissipato i dubbi interpretativi sollevati dal codice etico, non riuscendo di fatto ad eliminare le ambiguità proprie del modello di raccordo tra norma etica e norma deontologica; Il d. lgs. 80/1998, emanato in virtù della legge delega 59/1997 al fine di completare l’avviato percorso di privatizzazione della Pubblica Amministrazione , è di nuovo intervenuto sulla materia disciplinare. Da un lato ha introdotto, al comma 3 dell’art. 58 bis del d. lgs. 29/1993 , la norma secondo cui le Amministrazioni (e non più il Presidente del Consiglio dei Ministri) formulano all’ARAN i necessari indirizzi affinché i principi del codice “vengano coordinati con le previsioni contrattuali in materia di responsabilità disciplinare”, dall’altro, ha ribadito – peraltro con una formula molto più incisiva rispetto al dettato della previgente disposizione legislativa  – la riserva di competenza in capo alle parti contrattuali in materia di infrazioni disciplinari, mantenendo tuttavia la funzione del codice di condotta di definire i doveri del dipendente.
A fronte di un dato normativo alquanto incerto e contraddittorio, non superato nemmeno dal più recente codice deontologico dei pubblici dipendenti emanato dal Governo nel 2000  e dal successivo d. lgs. 165/2001 , la dottrina prevalente è riuscita a risolvere l’apparente antinomia tra le due fonti riconoscendo alla contrattazione collettiva un ruolo essenziale nel determinare, in via definitiva, il rapporto tra norma deontologica e norma disciplinare, nonché la misura del contributo della prima nella regolamentazione del rapporto di lavoro.
Muovendo dalla premessa secondo cui il codice etico non può invadere la sfera disciplinare , l’unica via, affinché le norme di condotta siano dotate di efficacia vincolante, è rappresentata dal recepimento nel contratto collettivo, operazione che consente alla norma disciplinare contrattuale di filtrare  la regola etica proveniente da fonte unilaterale e allo stesso tempo di veicolarne gli effetti all’interno del rapporto privato di lavoro.
Dunque, pur continuando a rimanere estremamente labile e indefinito il confine tra valenza etica e obbligatorietà giuridica di una previsione, rimane ferma la necessaria mediazione della clausola contrattuale affinché la norma di comportamento possa varcare la soglia della dimensione deontologica ed avere implicazioni anche sul piano giuridico .
In definitiva, solo il recepimento delle norme del codice nei contratti collettivi consente alla norma di condotta di esplicare diretta efficacia vincolante nel rapporto di lavoro .
Se c’è chi intravede dunque nel codice deontologico la convivenza di un’anima etica e di un’anima disciplinare , sollevando il problema della natura giuridica del documento, occorre, tuttavia, sottolineare che la seconda è destinata a rimanere sullo sfondo se non richiamata espressamente da una apposita norma (disciplinare appunto), la cui forza vincolante deriva dall’essere prodotta da una fonte collettiva e negoziata.
Non è ravvisabile, in altre parole, nel codice, uno strumento di ingerenza nella gestione, secondo norme privatistiche, del rapporto di lavoro con l’Amministrazione; lo scopo di tale documento consiste nel fornire alla determinazione privata l’opportunità di cogliere nelle proprie norme quei valori che appaiono funzionali alla positivizzazione degli obblighi del lavoratore e dei conseguenti comportamenti illeciti e che, pertanto, saranno trasfusi in clausole contrattuali .
Mancando nell’attuale quadro normativo complessivo del lavoro pubblico un legittimo spazio per una vincolatività giuridica delle norme etiche, il codice deontologico può svolgere molteplici funzioni, anche di assoluta rilevanza, ma tutte caratterizzate dall’essere integrative, complementari e strumentali rispetto alla predisposizione e applicazione di altre norme, queste sì assolutamente cogenti.
Nondimeno, tutto ciò non vuol dire che la norma etica sia totalmente priva di implicazioni nell’area disciplinare, e più in generale nella sfera giuridica del lavoratore .
Trattandosi di un documento giuridico non vincolante, ma chiamato a delineare un quadro di principi nell’ambito del quale sono individuabili quei comportamenti funzionali ai valori della imparzialità, legalità ed efficienza che fondano l’azione e la dimensione ontologica della Pubblica Amministrazione (art. 1), il codice rappresenta, in primo luogo, un orientamento per il lavoratore, un modello di condotta esemplificativo del corretto svolgimento di funzioni pubbliche .
Le regole etiche che esso racchiude non sono che una raccomandazione all’impiegato di porre la propria capacità lavorativa a (completa) disposizione della Pubblica Amministrazione, dedicando agli incarichi quotidianamente espletati ogni attitudine materiale e intellettuale , come richiesto dalle norme costituzionali che raffigurano il funzionario come colui che, con disciplina e onore (art. 54, comma 2), si pone al servizio esclusivo della Nazione (art. 98, comma 1).
Sotto questo profilo, inoltre, la portata del codice si rivela ancora più ampia di quanto possa in apparenza sembrare, ed il suo compito più significativo, dal momento che con la consegna del codice al lavoratore l’Amministrazione  non solo assolve un dovere di pubblicità delle norme in esso sancite, ma adempie altresì ad un dovere essenziale del datore di lavoro, al quale corrisponde il diritto del lavoratore ad una adeguata informazione sulle modalità di svolgimento della professione.
Il ruolo orientativo non è però limitato al solo prestatore di lavoro, ma è diretto anche alle parti contrattuali, alle quali il legislatore richiede il compito di positivizzare, attraverso norme puntuali e dettagliate, gli imperativi comportamentali indispensabili allo svolgimento della prestazione professionale, nonché le condotte suscettibili di integrare illeciti disciplinari. E in questa sede, peraltro, le norme del codice di condotta contribuiscono anche a rafforzare le statuizioni contenute nelle disposizioni aventi carattere disciplinare, ricoprendo la disciplina giuridica del pubblico impiego di un significato etico, che la rende idonea a recuperare anche una dimensione deontologica del lavoro.
Infine, da non trascurare l’ausilio che le norme deontologiche forniscono all’autorità giudiziaria in sede di interpretazione e applicazione delle previsioni contrattuali, qualora si riscontrino lacune o si manifesti un’eccessiva indeterminatezza nella formulazione delle clausole medesime. Viene in evidenza, infatti, in tali circostanze, il carattere suppletivo e  integrativo che il codice riveste ai fini della ricostruzione delle condotte censurabili sotto il profilo disciplinare .
E’ in questi termini che si può parlare di un rilievo giuridico delle regole del codice di condotta, e dalla breve illustrazione delle potenzialità del documento si deduce che il legame così stretto, quasi inscindibile, tra norma etica e norma disciplinare ha lo scopo di consentire alla norma deontologica di subentrare, in funzione di surrogazione interpretativa, in ambiti non ancora occupati da regole giuridiche, ovvero con un ruolo rafforzativo laddove invece già sussistono regole di diritto positivo.

3. Per anni, i principi costituzionali dell’imparzialità e del buon andamento enunciati dall’art. 97 Cost. hanno rappresentato un argomento forte per attribuire una posizione di supremazia speciale alla Pubblica Amministrazione. Ciò si ripercuoteva anche sul rapporto di lavoro alle proprie dipendenze, che si esprimeva soprattutto attraverso l’esercizio di un potere disciplinare di carattere autoritativo . In seguito alla profonda riforma introdotta dal d. lgs. 29/1993, quegli stessi valori sono stati ripensati non più come fondamento di una posizione di soggezione del dipendente, bensì quali criteri di organizzazione della prestazione di lavoro, perfettamente conciliabili con il nuovo sistema di regolazione negoziata dell’impiego pubblico, al punto da divenire parametri di riferimento idonei ad indirizzare la stessa contrattazione collettiva.
E la conformità a Costituzione dei mutamenti intervenuti nella natura giuridica del rapporto di pubblico impiego è ribadita anche dalla Corte Costituzionale nelle decisioni n. 313 del 1996 e n. 309 del 1997 . Nella più recente, in particolare, si osserva come, attraverso la via della privatizzazione, il legislatore abbia inteso garantire, tra i contenuti dell’art. 97 Cost., “anche il valore dell’efficienza”, avvalendosi di “strumenti gestionali” che permettono un utilizzo “più flessibile” della prestazione lavorativa e maggiormente idoneo “al perseguimento della finalità del buon andamento della Pubblica Amministrazione”.
Più specificamente, i principi dell’economicità e dell’efficienza hanno sancito la trasformazione della Pubblica Amministrazione nel senso di funzionalizzarne l’operato al raggiungimento di un obiettivo e, in quest’ottica, l’azione amministrativa, oggi, prima ancora di estrinsecarsi come organizzazione dell’attività di governo, si pone in luce come organizzazione sociale e del lavoro, dal momento che il grado di efficacia dell’agire amministrativo ne diviene fondamento di legittimità.
Tuttavia, il progressivo allontanamento da uno schema integralmente pubblicistico del rapporto di pubblico impiego è avvenuto senza sacrificare il canone dell’imparzialità , ovvero senza trascurare quel valore con il quale il principio del buon andamento fa sistema, delineando il nucleo costituzionale intangibile che ispira l’organizzazione e l’azione amministrativa .
Anche in un contesto di passaggio verso un’Amministrazione di risultato, retta da esigenze di funzionalità, non può, quindi, non assumere un rilievo centrale la natura di finalità pubblica propria dell’obiettivo perseguito nell’esercizio di compiti amministrativi, dietro il quale sono individuabili in modo più netto e prevalente aspettative, interessi e diritti del cittadino.
Ne consegue che i valori dell’efficienza e del buon andamento, se intesi come adeguatezza delle funzioni pubbliche rispetto alla cura dell’interesse della collettività, e se misurati in base alla rispondenza dei servizi assicurati alle esigenze della comunità sociale, non possono essere valutati alla stregua di meri indici di produttività. Essi impongono un giudizio più complesso, comprensivo altresì della qualità delle prestazioni erogate, e nel quale giocano un ruolo essenziale anche valori quali la trasparenza, la legalità e l’indipendenza dell’azione amministrativa, nonché la partecipazione e l’accesso alle informazioni. Principi questi che rientrano – costituendone una diretta esplicazione – nei canoni costituzionali richiamati dall’art. 97 Cost., e in ordine ai quali rivestono assoluta importanza le modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, tanto da far avvertire l’esigenza di rinnovate regole di condotta del dipendente pubblico .
Entrano in scena, in particolare, la serietà, l’impegno ed il rigore impiegati nell’adempimento dei doveri d’ufficio, anch’essi suscettibili di influire – almeno indirettamente – sulla qualità dei servizi erogati, e riconducibili ai principi di disciplina e di onore che la Costituzione impone. Ed è sempre la Costituzione a richiedere al dipendente di prestare la massima diligenza e tutte le proprie energie all’adempimento degli incarichi d’ufficio (art. 54, comma 2) , configurando così, come già sottolineato, in termini di esclusività il servizio che il funzionario rende alla Pubblica Amministrazione e, in via più generale, alla Nazione (art. 98, comma 1).
Si tratta di valori che, peraltro, contribuiscono anche a delineare la nozione di prestigio della Pubblica Amministrazione, il cui significato è destinato a rimanere assolutamente vago senza una norma (etica appunto) che lo obiettivizzi, attraverso la specificazione delle condotte suscettibili di darvi concretezza. Esso, infatti, non è certamente ricavabile dalla disciplina contrattuale del lavoro pubblico, rivolta com’è a coglierne i profili più concreti e immediatamente legati alla esecuzione della prestazione. Si evince, invece, dal complesso delle norme del codice deontologico, ciascuna delle quali, affondando le proprie radici nel più articolato concetto di fedeltà dell’impiegato verso la propria Amministrazione , contempla anche quegli aspetti dell’adempimento dei compiti d’ufficio propri del peculiare rapporto che si instaura tra Pubblica Amministrazione e funzionario, in virtù del quale quest’ultimo si impegna ad agire costantemente nell’interesse della prima ed a salvaguardarne il decoro .
Tra i principali atteggiamenti indicati dal codice di comportamento come  contrari al dovere di fedeltà, la richiesta o l’accettazione di regali o altre utilità, salvo quelli di modico valore (art. 3); la violazione dell’obbligo di astenersi dal partecipare all’adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri del dipendente (art. 6); il non garantire la parità di trattamento ai cittadini che entrano in rapporto con l’Amministrazione (art. 8); ma anche l’utilizzo della posizione ricoperta all’interno dell’apparato amministrativo al fine di ricavare vantaggi personali (art. 9), o l’usufruire di beni e servizi dell’Amministrazione a fini personali (art. 10), nonché l’avvalersi di mediazioni od altra opera di terzi nella stipulazione di contratti per conto dell’Amministrazione (art. 12) .
E’ sufficiente questa breve elencazione per comprendere che le norme del codice etico, lungi dal proporsi come una determinazione autoritativa dell’Amministrazione, si presentano come un tentativo di realizzare un’equilibrata sintesi tra le ragioni di gestione della prestazione di lavoro e la concezione dell’impiego pubblico al servizio esclusivo dell’interesse collettivo. L’intento, cioè, è quello di sviluppare una sinergia tra la disciplina riguardante l’agire fisico del dipendente e il fine organizzatorio dell’attività amministrativa, passaggio che si rivela imprescindibile alla luce della stretta interdipendenza tra i due momenti rispetto all’obiettivo di un’imparziale, equa ed affidabile, oltre che efficace, gestione della cosa pubblica .
Le regole di condotta da un lato rispondono ai canoni di indipendenza ed efficacia nella tutela del bene comune, dall’altro – nel favorire l’instaurarsi di un rapporto di collaborazione tra pubblico impiegato e utenza – sono invece tese a consentire al cittadino una partecipazione informata al procedimento, e dunque di qualità, aspetto quest’ultimo che rientra tra i molteplici contenuti in cui si esplicita la dimensione sostanziale del valore dell’eguaglianza (art. 3, comma 2, Cost) .
I principi costituzionali – imparzialità ed efficienza da un lato, qualità dei servizi e diritti di partecipazione dall’altro – sembrano quindi essere le chiavi di lettura del codice di comportamento, nonché i criteri per vagliarne l’efficacia.
Del resto, se la Carta Fondamentale indirizza l’attività della Pubblica Amministrazione nel suo complesso sulla base dei suddetti principi (art. 97), preoccupandosi altresì di fornire anche principi idonei a configurare un “regime costituzionale del pubblico impiego” (desumibile dal combinato disposto degli artt. 54, comma 2 e 98, comma 1), il codice deontologico non può che rappresentare una proiezione dei medesimi sul piano (soggettivo) del comportamento del dipendente , mediante la tipizzazione di modelli ad essi conformi e funzionali.
Modelli che, qualora vengano recepiti dalla autonomia contrattuale, si uniscono a quelli propri dell’organizzazione del lavoro, in modo da creare tra gli stessi un proficuo confronto che troverà precisazione e concretezza nell’ambito della norma disciplinare, l’unica legittimata a definire la condotta che il funzionario dovrà osservare .
Una conferma di quanto sostenuto è rintracciabile nell’art. 2 dello stesso codice di condotta, che, nell’aprire le porte alle norme-principio volte ad indirizzare il dipendente nell’espletamento dei propri doveri d’ufficio e operazioni quotidiane, racchiude, al primo comma, tutti i valori costituzionali appena citati affermando, che: “ Il dipendente conforma la sua condotta al dovere di servire esclusivamente la Nazione con disciplina e onore e di rispettare i principi di buon andamento e imparzialità dell’amministrazione. Nell’espletamento dei propri compiti, il dipendente assicura il rispetto della legge e persegue esclusivamente l’interesse pubblico; ispira le proprie decisioni ed i propri compiti alla cura dell’interesse pubblico che gli è affidato” .
Da qui, il carattere meramente esemplificativo del codice di condotta nei confronti dell’autonomia negoziale.
In ultima analisi, è evidente nel codice deontologico dei pubblici dipendenti la continua ricerca di integrazione tra imparzialità ed efficienza e, quindi, di compensazione, attraverso il bilanciamento di valori costituzionali, tra i due volti, di apparato pubblico e di datore di lavoro, che vengono ad assumere le Amministrazioni.
Ed è soprattutto da questa visuale che non dovrebbe ravvisarsi una situazione di contrasto tra regola etica e norma disciplinare dettata dalla regolamentazione privata del lavoro, ma semmai un rapporto di interdipendenza, nonché di mutua influenza, qualora vi sia consonanza di contenuti ed esigenze. Tutt’al più di separazione e/o indifferenza allorché, invece, manchi una sovrapposizione tra sfera deontologica e dimensione disciplinare, rivestendo in questo caso la norma di condotta la funzione di una mera indicazione, raccomandazione rivolta al dipendente con finalità educative, propria della norma etica.
Senza mai dimenticare che spetta comunque in prima battuta alla Pubblica Amministrazione-datore di lavoro (in seguito tale compito è affidato al giudice) valutare e decidere, in via definitiva, la compatibilità della norma deontologica con le esigenze proprie della disciplina contrattuale del rapporto di lavoro.
Alla stregua delle considerazioni appena svolte, non si condividono i dubbi circa l’effettiva utilità del codice di condotta del pubblico dipendente in ragione della eccessiva genericità dei suoi contenuti . Anzi, proprio tale elasticità si rivela essere, il vero punto di forza del documento.
E’, invero, il requisito della flessibilità, connaturato alla sua indole di manuale di comportamento, senza alcuna pretesa di efficacia vincolante, a consentire al codice di condotta la richiamata funzione di trasposizione di norme-principio nell’operazione di ricostruzione di modelli di condotta, nel tentativo di conciliare la nuova veste assunta ormai da un decennio dal pubblico impiego con il carattere strumentale che esso, comunque, continua a mantenere rispetto al perseguimento di finalità di carattere generale.

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