Tribunale di Bari, 20 febbraio 2004

Tribunale di Bari, 20 febbraio 2004 (giudice Rubino)

Rapporto di lavoro- mobbing- definizione- tutela della personalità morale del lavoratore- art. 2087 c.c.- accertata insussistenza del nesso di causalità tra condotta datoriale e danno- intento discriminatorio- insussistenza.

– art. 2087 c.c.

Si è in presenza di mobbing quando una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e qualità e che possono portare, a lungo andare, a disturbi psicosomatici, relazionali e dell’umore; di talché, se non v’è alcun nesso di causalità tra la condotta datoriale e  la dedotta ripercussione psicologica, e se manca l’intento persecutorio nel comportamento datoriale, significa che si verte in ipotesi di mero conflitto nelle relazioni lavorative, anche capaci di causare una sindrome ansioso depressiva, ma non qualificabili necessariamente come condotte mobbizzanti ( fattispecie in cui il giudice ha escluso che vi fosse nesso di causalità tra la sindrome ansioso- depressiva da cui era risultato affetto il ricorrente ed un comportamento datoriale, tra l’altro, non  specificamente inteso a lederne la sfera personale e/o lavorativa).

 

 

 

TRIBUNALE DI BARI
Sezione lavoro
SENTENZA 20 febbraio 2004
 
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
 
Il Giudice, dott.ssa S. Rubino, all’udienza del 20.2.04 ha emesso la seguente
 
 
SENTENZA
 
Tra
 
PV rappresentato e difeso dall’Avv. ***
 
                                                                         E
 
R B S F spa in persona del legale rappresentante p.t. assistito e difeso dall’Avv. ***
                                  
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
 
Con ricorso depositato in data 30.6.00 il ricorrente in epigrafe riportato conveniva in giudizio la società B spa premettendo di aver lavorato alle dipendenze della stessa dall’aprile ’96 prestando la sua attività nel settore logistica e ricoprendo attualmente l’incarico di segretario assistente con la qualifica di quadro; che nel corso del rapporto lavorativo aveva avuto modo di distinguersi per la particolare attitudine ed impegno in considerazione dei quali il precedente capo-ente, ing. T, gli aveva affidato numerosi e delicati incarichi che aveva svolto con estrema diligenza; che infatti il suo apporto alla crescita del settore era stato tale che il predetto ing. T lo aveva promosso a quadro con incarico di assistente nell’elaborazione dei programmi mensili di produzione per linee del prodotto; che egli si era sempre sentito parte integrante dell’azienda la cui produttività e crescita erano stati sentiti come obiettivi propri; che il sereno clima appena descritto si era venuto a modificare in seguito all’arrivo del nuovo dirigente, ing. M che aveva posto in essere, sin dal suo arrivo, tutta una serie di comportamenti ed atteggiamenti autoritari e assolutamente non finalizzati alla collaborazione, quali, ad esempio, la abolizione della riunione mattutina delle ore 9.30 richiesta dal ricorrente allo scopo di monitorare i problemi esterni ed interni del settore e la decisione di mandare in officina, all’insaputa di esso istante, altri dipendenti della logistica a verificare il lavoro o ad impartire richieste di prodotto diverse da quelle operate dal ricorrente medesimo; deduceva ancora che a partire dal luglio ’99 al settore logistica fu data una nuova organizzazione con l’introduzione del sistema informativo SAP finalizzato a migliorare le relazioni dei settori programmazione/produzione; che esso istante partecipò ai corsi di formazione organizzati dall’azienda prima dell’entrata in vigore del predetto nuovo sistema informativo conseguendo ottimi risultati riconosciutigli dallo stesso dirigente sig. M; che nel corso del primo periodo di utilizzazione del sistema informativo predetto, ebbero a verificarsi, nel settore logistica, disfunzioni organizzative percepite subito da esso istante il quale verificò e segnalò ai suoi diretti superiori le conseguenti discrasie e scompensi nella produzione invitandoli ripetutamente ad adottare i necessari accorgimenti per ridurre ed evitare i problemi sorti; che tuttavia tali solleciti furono avvertiti dal M come attacchi personali  miranti a screditare la sua figura di dirigente, così che questi ebbe ad assumere un atteggiamento sempre più ostile nei confronti del ricorrente; che tale situazione culminò allorché, a seguito delle dimissioni rese dal sig. DL anch’egli componente del settore logistica, il M manifestò la decisione di affidare al ricorrente le mansioni del collega dimesso; che a detta decisione esso istante si oppose evidenziando il già noto carico delle proprie incombenze e che comunque tale divisione dei compiti avrebbe danneggiato l’organizzazione del settore con nocumento dell’azienda; che quindi esso propose soluzioni alternative; che alla descritta opposizione del ricorrente il  M rispose minacciando di declassare il ricorrente medesimo; che l’atteggiamento persecutorio ed intimidatorio del M ebbe ancora a manifestarsi allorchè, alla riunione del 17.12.99, interpellato il P in ordine alla decisione circa l’accettazione della nuova divisione dei compiti, il M alle ragioni opposte dal P, reagì intimandogli di non partecipare alla riunione medesima; che in seguito, avanzata una domanda di ferie di due giorni, il M impose invece un periodo di ferie prolungato, decisione questa che manifestava il clima di “terrorismo psicologico” finalizzato ad emarginare ed allontanare il ricorrente dal proprio posto di lavoro; che egli, stanco delle continue provocazioni, denunciò la deprecabile condotta del capo ente alla Direzione del Personale onde ricercare una soluzione dei problemi del settore; che in concomitanza con gli episodi appena descritti, il ricorrente iniziò a manifestare un disturbo del comportamento e delle relazioni interpersonali con contestuale somatizzazione di tale malessere  psicologico; che invero tutto ciò realizzava una lesione del suo onore e della sua dignità, e che lo portò ad stato depressivo diagnosticato e certificato per il quale fu costretto a porsi in malattia pur continuando a segnalare ai suoi diretti superiori i problemi e le eventuali soluzioni, allertando anche la organizzazione sindacale FIM CISL; tanto premesso in fatto, il ricorrente denunciava in diritto la violazione degli artt. 2087 e 2043 c.c. e dell’art. 32 Cost. rilevando di aver subito, a causa della condotta datoriale come appena descritta, un danno biologico e patrimoniale di cui chiedeva il risarcimento da quantificarsi previa CTU; riteneva invero che la vicenda lavorativa come descritta delineasse una classica ipotesi di mobbing; deduceva in ultimo di aver esplicato, dal giugno ’99, mansioni di categoria superiore alla VI del CCNL metalmeccanici, sicchè chiedeva accertarsi l’avvenuto espletamento delle mansioni superiori e condannarsi la società alla erogazioni delle differenze retributive corrispondenti.
Sui fatti di causa offriva prova per testi.
Ritualmente costituita la società resisteva in giudizio contestando l’assunto appena sintetizzato.
Acquisita la documentazione, esperito il rituale tentativo di conciliazione, assunto l’interrogatorio formale di entrambe le parti, venivano escussi i testi ed esperita una CTU medica; nel corso del giudizio la difesa della società convenuta rinunciava al mandato e successivamente la difesa veniva assunta da un nuovo difensore.
Alla odierna udienza infine, previa discussione, la causa è stata decisa come da separato dispositivo.
 
MOTIVI DELLA DECISIONE
 
Il ricorrente ha dunque chiesto all’adito giudice:
1 “dichiararsi la società convenuta responsabile della violazione degli artt. 32 Cost.,. 2087 e 2043 c.c., quindi condannarsi la società al risarcimento del danno biologico pari al 30-35% o a quello da accertarsi a mezzo CTU…”;
2 qualora dovesse risultare che il danno biologico subito dal ricorrente sia di tale entità da impedirgli la ripresa di una qualunque attività lavorativa condannarsi la resistente al pagamento di una somma peri alla retribuzione globale annua percepita dal ricorrente moltiplicata per gli anni mancanti al raggiungimento della pensione…;”
3 “condannare la convenuta la pagamento sia della intera retribuzione globale per i periodo in cui, secondo quanto sancito dall’art. 14 della Disciplina Speciale – parte terza del CCNL dei metalmeccanici, il ricorrente avrebbe diritto a percepirne solo la metà, sia a versare i contributi calcolati sulla retribuzione mensile”; 
4 “accertare e dichiarare il diritto del ricorrente all’inquadramento nella VII ctg. Secondo la classificazione sancita dall’art. 4 disciplina generale sezione terza CCNL e a percepire il trattamento economico corrispondente”;
5 “condannare la resistente a corrispondere al sig. P quanto questi avrebbe dovuto effettivamente percepire per le prestazioni effettuate, sulla base della maggiore qualifica rivendicata al punto precedente nel periodo in cui il ricorrente ha affettivamente ricoperto incarichi di categoria superiore: e cioè a partire dal giugno ’99 sino alla data in cui verrà  regolarizzata la posizione contributiva del Sig. P con conseguente ricalcalo del TFR nonché dei contributi assicurativi e previdenziali”.
Iniziando con ordine la disamina delle questioni poste con il ricorso, occorre partire dalle domande avanzate sub nn. 1, 2 e 3.
Il ricorrente deduce la violazione dell’art. 2087 e 2043 c.c. nonché delle norme di rango costituzionale poste a tutela del diritto alla salute, individuando nel danno in tesi sofferto per la condotta della società datrice di lavoro, un’ipotesi di danno da mobbing, rivendicandone conseguentemente il risarcimento.
Va necessariamente e subito premesso che, ci si muova nell’ambito del danno da mobbing o si resti nel campo del 2087 c.c., passo imprescindibile e fondamentale è la ricerca del nesso di causalità tra la dedotta ripercussione psicologica ed i fatti denunciati e, soprattutto, la prova dell’intento discriminatorio e persecutorio dell’autore dell’illecito. Infatti occorre assolutamente tener bene presente che al centro dei sistema risarcitorio che tutela il lavoratore si pone non già l’etichetta adottata per definire il tipo di danno, bensì l’art. 2087 c.c. che è fattispecie atipica che opera a prescindere dalle etichette adottate. In altre parole ciò che il lavoratore che assume aver subito un danno da mobbing deve dimostrare non è il mobbing, bensì la violazione della clausola generale di cui all’art. 2087 c.c. che tutela il bene della salute e della personalità morale del lavoratore.
Ricercare dunque la violazione del principio di cui al 2087 c.c significa ricercare la prova del fatto, dell’elemento dell’intenzionalità, del rapporto di causalità tra il comportamento datoriale ed il danno e, ovviamente, del danno.
Onde poi definire l’eventuale ipotesi di lesione accertata, quale mobbing, significa aver individuato altresì quelle che sono – come a breve si dirà – le connotazioni tipiche di tale fattispecie di danno.
Il ricorrente assume in sintesi, rimandando alla descrizione della parte in fatto della odierna decisione, che il capo ente sig. M avrebbe posto in essere un comportamento intimidatorio ed emarginante nei confronti di esso istante, e che atteggiamento si sarebbe concretizzato in una serie di comportamenti quali: la abolizione della riunione mattutina delle ore 9.30; l’aver reiteratamente ignorato i suggerimenti avanzati dal P e diretti a risolvere i problemi creatisi nel settore logistica in seguito alla introduzione del nuovo sistema informativo SAP; la decisione di affidare al P i compiti del dimissionario sig. DL; l’invito rivolto al P dal M a non partecipare alla riunione del 17.12.99.
Ebbene, sulla base di quanto a breve si dirà, ritiene questo giudice che le pretese avanzate dal ricorrente ai punti sub 1, 2 e 3 della domanda, non siano accoglibili, non ricorrendo nella specie né ipotesi di mobbing, né violazioni di specifici obblighi in capo al datore di lavoro eziologicamente connessi alla patologia da cui assume di essere affetto.
Innanzitutto, seppur brevemente, occorre porre dei punti fermi posto che si discute di mobbing.
Ebbene, in base alla giurisprudenza che si è formata su questo tema e che col tempo è andata sempre più affinandosi e definendosi, va subito detto che per ricercare e riconoscere il mobbing in una vicenda lavorativa, si è giunti ad individuare criteri oggettivi e scientificamente accettabili che hanno definitivamente sgombrato il campo dai più diversi equivoci permettendo una valutazione rigorosa e sicura della presenza di tale tipologia di danno.  Dunque in termini tassativi e rigidamente scientifici il mobbing è stato definito come  “una vicenda lavorativa  di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso in cui una o più persone vengano fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e qualità. Il mobbizzato si trova nella impossibilità di reagire adeguatamente a tali attacchi e a lungo andare accusa disturbi psicosomatici, relazionali e dell’umore che possono portare anche a invalidità psicofisica permanente” (H. Hege); rilevano allora solo particolari situazioni con riguardo alle quali la frequenza, la durata e l’intensità delle condotte vessatorie poste in essere nei confronti della vittima, denotano una “insostenibilità” psicologica che può portare ad un crollo dell’equilibrio psicofisico.
Allora occorre accertare e verificare che ricorrano i parametri ben precisi della frequenza delle azioni in tesi ostili, della durata nel tempo di dette azioni, del tipo di azioni, ovvero del carattere persecutorio e discriminatorio delle stesse, della posizione di inferiorità del lavoratore e del preciso intento persecutorio e vessatorio del comportamento datoriale; occorrendo una prova rigorosa del danno e della relazione causale tra il medesimo e i pretesi comportamenti persecutori, che tali non possono dirsi quando siano riferibili alla normale condotta imprenditoriale.
Ebbene, ritiene questo giudice che nella fattispecie in esame difetti la prova di tutti i suddetti elementi.
In ordine al preteso danno di inabilità assoluta, la svolta consulenza medica ha affermato che il ricorrente è affetto ”da sindrome ansioso-depressiva (disturbo dell’adattamento), patologia di natura psichiatrica la cui genesi è compatibile con fattori legali al venir meno di gratificazione lavorative” ed ha quantificato nel _________la conseguente inabilità lavorativa. Allora esaminando attentamente tali conclusioni, si evince subito ed agevolmente che esse non individuano affatto uno specifico nesso di causalità con il comportamento datoriale; escludendo soprattutto, l’ipotesi di un’inabilità lavorativa assoluta.
In ordine all’elemento del nesso di causalità, non è in alcun modo emerso che lo stato depressivo in cui il ricorrente versa sia attribuibile ad un comportamento datoriale specificamente inteso a ledere il ricorrente.
Con particolare riferimento all’indefettibile prova dell’elemento dell’intenzionalità, altresì carente è la relativa prova.
Dall’esame dell’intera istruttoria e dall’audizione dello stesso ricorrente, ritiene il tribunale che verosimilmente lo stato ansioso-depressivo in cui incontestabilmente  versa il ricorrente, sia in qualche modo ricollegabile alla intervenute modifiche dell’organizzazione del lavoro e, in specie del settore logistica dove il predetto ha prestato la propria attività per notevole tempo.
Ma ciò in  un’ottica assolutamente fisiologica.
Invero è emerso che il lavoro costituiva la principale fonte di realizzazione del ricorrente, attesa la particolare professionalità e competenza maturate dal  predetto nel settore logistica ove ebbero ad effettuarsi i maggiori e radicali cambiamenti organizzativi. I testi escussi hanno invero tutti riferito che in effetti la riorganizzazione del lavoro all’interno dell’azienda, come disposta dal nuovo capo ente, colpì il P in particolar modo rispetto agli altri, proprio perché il P “sentiva” il proprio lavoro quasi come una missione. E deve considerarsi tipico, soprattutto in una stagione quale quella attuale, caratterizzata da sempre maggiore flessibilità, che coloro che abbiano vissuto del proprio lavoro, ne risentano in maniera particolarmente acuta laddove le proprie mansioni vengano modificate sulla base di nuove direttive aziendali, poiché è  inverosimile non considerare che all’interno della azienda intervengano col tempo cambiamenti, sì come è altrettanto verosimile che di tali cambiamenti il dipendente venga a risentirne, ma non è in questo l’antigiuridicità della condotta datoriale: occorre evidentemente che emerga la prova che determinati cambiamenti si traducano in condotte obiettivamente idonee ed univocamente finalizzate a ledere il dipendente.
Dunque, se è vero, perché conformemente emerso dalla svolta istruttoria, che il P ha psicologicamente risentito delle modifiche intervenute nell’azienda laddove ha visto non considerati i propri suggerimenti, è altrettanto vero che la responsabilità di tali ripercussioni non possa, per quanto a breve si dirà, essere attribuita alla società datrice di lavoro e, in particolare al M secondo un preciso  e definito fine.
Dall’istruttoria svolta non è invero emersa la prova positiva che il M abbia assunto precisi e reiterati comportamenti anche latu senso persecutori, ovvero che gli episodi descritti siano oggettivamente interpretabili come idonei ad emarginare deliberatamente il P.
È invero importante tenere ben presente che il comportamento datoriale per essere definito antigiuridico, deve essere obiettivamente definibile come lesivo, ostile, emarginante, non rilevando affatto che il dipendente lo senta come tale.
Ciò che dunque è emerso è che il regime del precedente dirigente T mutò a seguito del subentro del nuovo dirigente M e che tale mutamento di regime ebbe ad interessare e a tradursi principalmente nella introduzione del nuovo sistema informativo SAP che – a dire di tutti i testi – inizialmente comportò dei problemi di assestamento che i testi stessi hanno definito “fisiologici”. E’ altresì emerso che tali problemi iniziali  furono avvertiti, rilevati e segnalati da quasi tutti i dipendenti che operavano a quel nuovo sistema e che il P, appunto perché particolarmente competente nel settore logistica, quindi più “sensibile” rispetto ad altri, li avvertì con maggiore disagio. E’ altresì conformemente emerso che in effetti il P ebbe a segnalare e suggerire le soluzioni a suo avviso più idonee a risolvere i problemi in questione, ma non è altrettanto pacificamente emerso che i suoi suggerimenti furono ignorati o che fu deliberatamente emarginato per questo; non è in altri termini emerso che i suggerimenti del ricorrente furono interpretati  dal sig. M come “attacchi personali miranti a screditare la sua figura di dirigente”. Conseguentemente poco rileva, ai fini invocati, la decisione del M di abolire la riunione mattutina delle ore 9.30. Senza dubbio, appunto perché fu suggerita dal P, questa decisione fu avvertita dallo stesso come un affronto personale, ma non è stata fornita assolutamente la prova che detta decisione fu assunta al preciso fine di colpire il ricorrente, laddove essa invece, alla luce di quanto riferito dai testi, si inseriva nella nuova impostazione organizzativa del settore, legittimamente decisa dal nuovo capo ente. Sì come non è stata fornita la prova della valenza causale in termini dannosi, della detta decisione.
A questo proposito va rilevato che il datore di lavoro non è obbligato ad adottare i suggerimenti o le soluzioni avanzate dal dipendente che si ritenga in grado di avanzarle; può essa costituire un’ipotesi, una opzione del datore di lavoro, ma non un obbligo, sicchè la circostanza che il datore di lavoro di fatto ignori quanto suggerito da un dipendente particolarmente competente, non può assurgere  automaticamente ad una condotta antigiuridica.
E’ rimasto infatti acclarato che il ricorrente rifiutò di attenersi alle nuove modalità operative del settore e che conseguentemente scelse di allontanarsi dal lavoro, ponendo in essere una scelta sua propria, certamente non attribuibile alla nuova impostazione aziendale da lui non condivisa. Non può conseguentemente sostenersi che il M abbia intenzionalmente ignorato e non ascoltato il P perché “visto minato il proprio ruolo direttivo”.
In altri termini quanto si è verificato nella vicenda lavorativa in esame va ritenuto assolutamente fisiologico, posto che non è stata fornita la prova del fatto lesivo, ovvero del comportamento datoriale e della sua obiettiva idoneità a ledere la professionalità del lavoratore nonché dell’elemento soggettivo posto alla base della condotta in tesi dannosa del M.
Con particolare riferimento poi alla decisione del M di affidare al P anche le mansioni del dimissionario DL, va rilevato che tutti i testi escussi hanno riferito che in effetti il M valutò l’ipotesi di affidare al ricorrente anche le mansioni sino ad un certo momento espletate dal predetto DL, e che tale decisione si inseriva nella nuova divisione dei compiti di cui alla nuova organizzazione lavorativa decisa dal M, ma non può ritenersi questa decisione una manifestazione dell’ostilità del M nei confronti del P.
Infatti nulla a sostegno di tale assunto è positivamente emerso.
Ciò che invece con certezza è rimasto provato è che la decisione di incaricare il ricorrente delle mansioni del collega dimissionario fu la conseguenza della nuova organizzazione del lavoro (teste  M. W).
Parimenti e conseguentemente non può condividersi la lettura che il ricorrente ha proposto dell’invito avanzato dal M al P di non partecipare alla riunione del 17.12.99. I testi sentiti e che ebbero modo di partecipare a quella riunione, hanno riferito che, in effetti, al sollecito rivolto dal M al P  inteso a conoscere le decisioni di quest’ultimo relativamente all’affidamento delle mansioni del DL ed al rifiuto opposto dal  ricorrente, il M invitò lo stesso ad abbandonare la riunione in quanto, evidentemente, non più interessato.
Per altro verso, in ordine alla circostanza che il M, a fronte della resistenza del P ad assumersi tali ulteriori incarichi, lo avrebbe minacciato utilizzando la frase “ti mando a fare i pezzi”, i testi escussi hanno riferito che in effetti il M non accolse di buon grado il rifiuto del P ma che la riferita espressione era solita nel gergo utilizzato in azienda (teste R. V).
Tale specifico elemento – ovvero la determinazione di incaricare il ricorrente di nuove ulteriori mansioni – resta, ad avviso dell’Ufficio, un elemento neutro. Invero sebbene rimasta pacificamente dimostrata, questa circostanza non consente di sostenere che a detta determinazione sia collegabile lo stato depressivo che investì il ricorrente: è ben vero che il ricorrente ha riferito di detta circostanza inserendola in un contesto senz’altro più ampio a suo avviso tutto leggibile nei termini della lesione, ma è anche altrettanto vero che detta circostanza è l’unica che è rimasta pienamente provata e che,  evidentemente, occorre qualcosa di più che un evento. Va ripresa a questo punto la definizione da cui si è partiti del mobbing  che richiede, perché sia obiettivamente configurabile, una serie di eventi o condotte alcune di per sé illecite, altre anche neutre ma che, inserite in un preciso programma di mobbing come inteso e definito scientificamente, divengono a loro volta illecite. Sicchè occorre sempre la prova di una catena di eventi e di condotte nella quale catena emerga un comportamento forte, di per sé illecito che sia capace di trainare altre condotte e di colorare le stesse di illiceità.
Sicchè nel caso in esame la dimostrata decisione di affidare al P anche le mansioni del DL resta un fatto neutro, inidoneo, di per sé, a dimostrare l’intento persecutorio necessario per ricollegare al società convenuta il preteso danno.
In altre parole le dichiarazioni dei testi consentono di ritenere che complessivamente l’atteggiamento del M fu una logica conseguenza del delineato nuovo assetto aziendale, sebbene esso fu “sentito” dal P  come non adeguato alla sua professionalità, quindi da lui avvertito come persecutorio ed emarginante, ma la prova positiva di un concreto, reiterato, effettivo atteggiamento persecutorio resta difettosa.
Va a questo punto tenuto conto che i testi hanno altresì riferito che, alla proposta, avanzata dal dirigente V al M circa la opportunità di ricercare una soluzione ai problemi di carattere psicologico che da un certo momento in poi ebbe a manifestare il P, il M mostrò “la massima disponibilità” per far rientrare il P in azienda.
Lungi dunque dal riconoscere nella fattispecie in esame un’ipotesi di mobbing, va rilevato invece, alla luce della condotta istruttoria, che si è in presenza di un’ipotesi di un lavoratore dedito al proprio lavoro, specializzato e sensibile che, in quanto tale, ha profondamente risentito del cambiamento radicale intervenuto nell’organizzazione lavorativa; che ha visto conseguentemente mortificata la propria competenza laddove di fatto, non ha visto considerato il proprio modo di suggerire affrontare e risolvere i problemi, quindi di concepire il funzionamento di un settore – quello della logistica – a lui ben noto. Ma tale assunto, senz’altro certo perché dimostrato, non si può sostenere che costituisca la traduzione di un preciso intento del M di mortificare la professionalità del ricorrente. La sofferenza sentita come mortificazione della professionalità del ricorrente va letta come la conseguenza di un fatto obiettivo ed inevitabile: la riorganizzazione del settore. In proposito  va rammentato che “il prestatore di lavoro non ha alcun diritto ad essere felice e, anzi, come in ogni altro ambiente basato su relazioni continuative, l’azienda stessa è luogo di continui conflitti e tensioni, in parte inevitabili e prevenibili mercè sfoggio di virtù morali ed umane che non sono oggetto di obbligo giuridico” (prof. Gragnoli); aggiunge questo giudice che non può dimenticarsi che l’illecito non coincide con quanto viene avvertito come sgradevole sul piano morale e che in ogni caso, la illegittimità di una condotta non può farsi derivare dal semplice verificarsi del danno ove accertato. Infatti l’alterazione dell’integrità psicofisica di un soggetto può derivare da fattori differenti, dalla vita familiare, da uno stato di difficoltà emotiva che connota il lavoratore, ed anche da comportamenti legittimi del datore di lavoro, inevitabili ma accettati in modo irragionevole dal prestatore di lavoro.
In difetto quindi di una prova positiva del nesso di causalità con un comportamento identificabile sul piano oggettivo come illegittimo, la pretesa di risarcimento del danno non può trovare spazio.
Per quanto concerne invece la richiesta di riconoscimento delle mansioni superiori rispetto all’inquadramento attribuito dalla società e che il ricorrente assume aver svolto dal giugno ’99, sino alla intervenuta cessazione del rapporto, si ritiene che vi siano i presupposti per l’accoglimento.
A supporto della domanda ritiene utili il Tribunale considerare le schede di valutazione redatta dal capo ente sig. M e l’attribuzione della qualifica di “quadro aziendale” operata il 7 giugno ’99.
Tuttavia, pur facendo riferimento alle conclusioni di cui alla svolta perizia tecnica, occorre tener presente che il rapporto lavorativo del ricorrente si è risolto il 31.12.00, sì che resta assolutamente irrilevante il successivo periodo. Ebbene, previo riconoscimento della superiore qualifica rivendicata, spetta al ricorrente la somma di E. 1.936,43 a titolo di differente trattamento economico relativo al periodo giugno ’99 dicembre ’00. Detta somma andrà maggiorata degli accessori di legge.
In definitiva la domanda va accolta solo in parte, statuendosi in conformità.
Le spese di lite si ritiene opportuno compensare per 2/3 liquidandole come da dispositivo e ponendo a carico della società il residuo terzo.

PQM
 
Il giudice, definitivamente pronunciando sulla domanda avanzata da P V nei confronti della R B S F spa in persona del legale rappresentante p.t., nel contraddittorio delle parti, così provvede:

–  rigetta le domande avanzate sub punti 1, 2 e 3 del ricorso;

–   accoglie la domanda avanzata sub punto 4 del ricorso e dichiara che il ricorrente ha svolto mansioni superiori  dal giugno ’99 al dicembre ’00;

–   conseguentemente condanna la società convenuta al pagamento della complessiva somma di E. 1.936,43 a titolo di differente trattamento economico relativamente al periodo giugno ’99 dicembre ’00 maggiorata degli accessori di legge;

–   liquida le spese del giudizio in complessivi E, che compensa per 2/3 e che pone, per i residuo, a carico della società convenuta maggiorati di IVA e CPA come per legge.

Bari, 20.2.04

Il giudice
DR. S. RUBINO
 

 

Related Posts
Leave a Reply

Your email address will not be published.