NOTE CRITICHE SULLA GIURISPRUDENZA DEL TRIBUNALE DI ROMA, IN TEMA DI DIFETTO DI LEGITTIMAZIONE AD AGIRE NELLE IMPUGNAZIONI DI DELIBERE ASSOCIATIVE

1) Il caso

Occupandosi con frequenza di vicende di natura associativa, specie per il posizionamento nella capitale della sede di sindacati, di partiti e di associazioni di portata nazionale, la sezione specializzata del Tribunale di Roma ha avuto spesso modo di esprimersi con riguardo alla validità delle deliberazioni degli organi di associazioni riconosciute e non riconosciute (assemblee, organo amministrativo, probiviri e organi disciplinari).

Azione tipica, esercitata con una certa frequenza dagli associati in sede giudiziale, è quella d’impugnazione delle determinazioni assembleari circa la nomina degli organi amministrativi, spesso esperite ai sensi anche dell’art. 23 comma 3 c.c., con richiesta, pertanto, d’assunzione di provvedimento in chiave cautelare, volto a paralizzare l’efficacia dell’atto oggetto d’impugnazione.

Un intenso confronto giudiziale, svoltosi tra due gruppi di iscritti a un’associazione sindacale a diffusione nazionale, offre l’occasione per vagliare e analizzare l’orientamento del Tribunale di Roma, sezione specializzata delle imprese, in tema di legittimazione ad agire.

Contestando la validità della nomina al vertice di un sindacato, un gruppo di associati (che chiameremo gruppo A) adì l’autorità giudiziaria della capitale, per ottenere la sospensione e, quindi, l’annullamento, di tutte le deliberazioni assunte dal congresso nazionale, con particolare riferimento alle nomine al vertice dell’associazione (che chiameremo gruppo B). In sede cautelare, il Tribunale accolse le istanze proposte, ex art. 23 comma 3 c.c., dal gruppo A e proseguì la causa nel merito. Il gruppo B, soccombente in questo primo frangente giudiziale, celebrò un nuovo congresso nazionale, in cui replicarono le medesime decisioni già oggetto di sospensione e il gruppo A ripropose analoga impugnazione. Parallelamente all’avvio del contenzioso, il gruppo B assunse una serie di provvedimenti espulsivi di tutti gli associati che, via via, promuovevano azioni giudiziali nei loro confronti, fondando l’estromissione dal consesso, tra l’altro, sulle iniziative giudiziali intraprese contro i rappresentanti del gruppo B.

Nel secondo giudizio di opposizione alle delibere congressuali, gli associati del gruppo B si presentarono all’udienza di sospensiva con provvedimenti di espulsione degli associati del gruppo A, chiedendo la reiezione dell’istanza cautelare perché proposta da soggetti non più appartenenti all’associazione e, come tali, privi della legittimazione attiva. Gli iscritti del gruppo A opposero d’avere, medio tempore, impugnato le espulsioni, da considerarsi illegittime e che questa circostanza non avrebbe ostacolato una pronuncia sul merito dell’istanza cautelare come del resto già deciso dallo stesso magistrato investito della

questione (Tribunale di Roma, ordinanza 6 agosto 2015, causa r.g. 28816/2015); aggiunsero, in ogni caso, che le questioni sulla legittimazione attiva, attenendo alle condizioni dell’azione, dovessero essere oggetto di accertamento incidentale.

Retrocedendo dal proprio originario orientamento, il giudice statuì:

“… allo stato e tenuto conto della sommaria cognizione propria della presente fase cautelare, nessuno degli odierni ricorrenti risulta rivestire la qualifica di associato o ricoprire cariche all’interno dell’ente … non appare rilevante quanto dedotto dalla difesa dei predetti nel corso dell’udienza di comparizione delle parti con riferimento alla eccezione in esame. Ed infatti, la circostanza che i provvedimenti di espulsione siano oggetto di impugnazione dinanzi all’autorità giudiziaria ovvero che non siano ancora scaduti i termini per la relativa impugnazione non esclude che – allo stato ed in assenza di sospensione – gli stessi siano produttivi di effetti. Né, del resto, è consentito a questo giudice effettuare un qualsivoglia accertamento di tipo incidentale in ordine a provvedimenti che non sono oggetto di impugnazione nel presente giudizio. Ed infatti, come osservato dalla Suprema Corte, se è vero che l’annullamento di una delibera ha effetto retroattivo, è anche vero che vi sono alcuni effetti che non possono in ogni caso essere azzerati. In particolare è importante evidenziare, ad esempio, che gli atti compiuti dagli amministratori illegittimamente nominati sopravvivono anche all’eventuale annullamento della nomina stessa, dovendo la regola della retroattività giuridica della sentenza di annullamento di una delibera essere necessariamente temperata dalla limitata possibilità di ripristinazione della situazione giuridica preesistente in senso materiale. Dunque la retroattività degli effetti delle sentenze di annullamento non è assoluta, ma incontra dei limiti, anche al fine di garantire la certezza dei rapporti medio tempore sorti. Tale principio risulta affermato in recenti decisioni della Cassazione, come p.es. in materia di annullamento di delibere di aumento di capitale, incidenti sulla consistenza delle quote di partecipazione al capitale sociale e quindi sul ‘peso’ del voto dei singoli soci e, in ultima analisi, sull’approvazione delle successive delibere assembleari (cfr. Cass. 4946/13: “L’annullabilità di una delibera di aumento del capitale sociale, laddove non ne sia stata disposta la sospensione dell’esecuzione ai sensi dell’art. 2378, terzo comma, cod. civ., non incide -ancorché ne possa derivare una modifica della composizione della maggioranza allorquando non sia stata seguita dall’integrale esercizio del diritto di opzione da parte dei vecchi soci- sulla validità delle successive deliberazioni adottate con la nuova maggioranza, poiché l’omessa adozione del provvedimento di sospensione rende legittimi gli atti esecutivi della prima deliberazione, resistendo, peraltro, tale legittimità anche al sopravvenire del suo annullamento, la cui efficacia, sebbene in linea di principio retroattiva, è pur sempre regolata dalla legge ed operante nei soli limiti da essa sanciti, tanto rivelandosi affatto coerente con le esigenze di certezza e stabilità sottese alla disciplina delle società commerciali”). È stato in particolare precisato, sul presupposto della mancata sospensione ex art. 2378, 3° comma, c.c. della deliberazione poi annullata, che “… (è)… vero che l’annullamento di un negozio

ha in linea di principio effetto retroattivo; tuttavia la retroattività è pur sempre disciplinata dalla legge ed opera nei soli limiti da essa previsti. Viene qui in esame il tema della legittimità degli atti posti in essere in esecuzione di delibera assembleare annullabile, cui attiene, appunto, l’istituto della sospensione ai sensi dell’art. 2378 c.c. Come la “sospensione dell’esecuzione della deliberazione” (art 2378 c.c., comma 3), disposta dal giudice, rende illegittimi gli atti di esecuzione che vengano ciò nonostante posti in essere, così la mancanza di un provvedimento di sospensione comporta la legittimità degli atti esecutivi, ancorché relativi a una delibera annullabile. E tale legittimità resiste al sopravvenire dell’annullamento: in caso contrario l’istituto della sospensione non avrebbe alcun senso, visto che gli effetti giuridici sarebbero i medesimi sia che l’impugnante abbia ottenuto la sospensione della delibera, sia che non l’abbia ottenuta. …” e che “… pertanto, se una delibera di aumento del capitale sociale, ancorché annullabile, non è stata sospesa, e dunque è stata legittimante eseguita, il nuovo assetto delle partecipazioni risultante dalla sottoscrizione dell’aumento è a sua volta legittimo, e legittime sono, perciò, le successive deliberazioni assunte con la nuova maggioranza …” con la conseguenza che “… di effetto “a catena” sulla legittimità delle delibere in sequenza non può dunque parlarsi. …” (cfr. Cass. 4946/13, in motivazione). Le predette considerazioni, seppur dettate con riferimento alla materia societaria, appaiono pienamente valide e condivisibili anche nell’ambito associativo, attesa la medesima esigenza di tutela dell’aspetto organizzativo dell’ente. Ne consegue che – se in assenza di sospensione – le delibere seppur viziate sono comunque produttive di effetti, alcuni dei quali tali da non poter essere travolti neanche dalla eventuale pronuncia di annullamento, a maggior ragione deve escludersi che sia possibile, per un giudice non investito della relativa impugnazione, accertare incidentalmente la eventuale invalidità di delibere impugnate in altra sede e non tener conto dei relativi effetti, quando tali effetti non siano stati sospesi dal giudice investito dell’impugnazione”.

Nella sostanza, quindi, impossibilità assoluta di statuire sul merito.

Gli appartenenti del gruppo A, tuttavia, che medio tempore avevano impugnato le ritorsive espulsioni, ottennero dallo stesso Tribunale provvedimento d’accertamento dell’illegittimità della loro estromissione, dimostrando tanto la strumentalità rispetto all’esigenza dell’O.S. di bloccare la loro azione quanto l’intrinseca illegittimità. Ottenuta così la loro reintegrazione nel consesso associativo, riproposero nel giudizio di merito ancora pendente, una seconda istanza di sospensione ex art. 23 comma 3 c.c., ma il gruppo B emise altri provvedimenti espulsivi, subito impugnati per la seconda volta, con lo scopo di riproporre la tesi della perdita di legittimazione attiva.

Com’è evidente, la sequenza potrebbe ripetersi all’infinito: un associato o un socio impugnano una delibera; il giorno dell’udienza l’associazione o la società producono un provvedimento di sospensione, o di esclusione o di espulsione; l’associato e il socio le impugnano ottenendo la sospensione dell’efficacia e riproponendo domanda di sospensione cautelare ex art. 23 comma 3 c.c.; il giorno

dell’udienza l’associazione o la società producono nuovo provvedimento estromissivo …

Il convincimento del Tribunale di Roma rispetto al proprio orientamento, secondo cui un provvedimento di espulsione, qualunque esso sia, debba considerarsi ostacolo assoluto all’accertamento di domande formulate, anche in via cautelare, da soci e/o associati, è talmente radicato, da farne applicazione anche in corso di giudizio. Infatti, nella prima causa promossa dal gruppo A con lo scopo di annullare le deliberazioni del primo congresso nazionale e per il quale era stata ottenuta la sospensione ex art. 23 comma 3 c.c., il gruppo B depositò, unitamente alla comparsa conclusionale, provvedimenti di espulsioni di alcuni dei ricorrenti, che avevano proposto il primo giudizio d’impugnazione e, in sede decisoria, il Tribunale di Roma statuì la perdita di legittimazione attiva di costoro, fondandola sull’allegazione unita all’atto conclusivo del giudizio (per la cronaca, si segnala che la dimenticanza di un paio di ricorrenti, nei molti procedimenti di espulsione dei sostenitori del gruppo A, permise l’emissione della sentenza del merito, che confermò l’annullamento del congresso e di tute le deliberazioni, ricalcando le motivazioni addotte in sede cautelare).

2) Il contrario orientamento della giurisprudenza di legittimità

L’orientamento del Tribunale di Roma, fondato sul richiamo a cassazione n. 4946/2013 (che, peraltro, come si chiarirà di seguito, non si adatta al caso di specie), contrasta con l’orientamento giurisprudenziale di Cassazione n. 181/1988 (analogamente, Cassazione n. 952/1993; Tribunale di Roma, 6 agosto 2015), secondo cui:

“Il socio escluso, pur dopo la sua uscita dalla società, può impugnare una delibera assembleare adottata al tempo in cui egli era ancora socio, quando sia titolare di un diritto attuale che risulti leso dalla delibera stessa”

Assai significativamente, in motivazione, si chiarisce:

“Invero tutte le volte in cui un diritto astrattamente configurabile dell’ex socio nei confronti della società in relazione alla sua passata partecipazione ad essa dipenda dall’accertamento della legittimità di una delibera assembleare presa quando egli era ancora socio, negargli la possibilità di impugnarla significherebbe negargli la possibilità concreta di far valere quel diritto medesimo, con evidente compromissione del più elementare senso di giustizia … In tali casi è evidente l’interesse dell’ex socio ad impugnare la delibera assembleare della società pur dopo la sua uscita dalla medesima ed è sufficiente, quindi, che egli dia la prova di tale interesse per legittimarsi all’esercizio della relativa azione”

Nel caso di specie, pertanto, vista la partecipazione all’associazione, sino alla settimana prima dell’udienza di discussione dell’istanza cautelare, la

legittimazione attiva doveva considerarsi presente e non poteva essere negata, in dipendenza di sospensioni ed estromissioni, la cui natura strumentale era emersa nel momento in cui si accertava l’illegittimità delle estromissioni, tanto d’apparire alla stregua di un vero e proprio abuso del diritto.

Richiamando Cassazione n. 4946/2013, secondo cui la retroattività delle sentenze di annullamento non è assoluta, ma incontra limiti, anche al fine di garantire la certezza dei rapporti medio tempore sorti, il Tribunale ha affermato che:

“… se – in assenza di sospensione – le delibere seppur viziate sono comunque produttive di effetti, alcuni dei quali tali da non poter essere travolti neanche dalla eventuale pronuncia di annullamento, a maggior ragione deve escludersi che sia possibile, per un giudice non investito della relativa impugnazione accertare incidentalmente la eventuale invalidità di delibere impugnate in altra sede e non tenere conto dei relativi effetti, quando tali effetti non siano stati sospesi dal giudice investito dell’impugnazione.”

Il problema di fondo da risolvere è chiaro e facilmente individuabile: se un associato, che ha impugnato mesi o anni prima una deliberazione dell’associazione alla quale, per moltissimo tempo, è stato iscritto e di cui si considera ancora parte, venga raggiunto da un provvedimento di espulsione il giorno prima della discussione dell’istanza cautelare o il giorno prima dell’udienza di p.c., il giudice investito della decisione sull’impugnazione deve, invariabilmente, statuire l’assenza di legittimazione attiva, sul presupposto che, sino a quando non interverrà un provvedimento sospensivo dell’espulsione, questa deve ritenersi efficace?

Questo problema è stato affrontato, specificamente, dalla giurisprudenza di legittimità, sopra citata, la quale è giunta alle conclusioni riportate, non solo cogliendo ma, addirittura, denunciando espressamente l’ingiustizia alla quale si approderebbe, se si facesse meccanica e acritica applicazione del principio di automatica efficacia del provvedimento espulsivo non ancora sospeso, come accaduto nel caso di specie.

La soluzione suggerita dai giudici di legittimità e che anche il Tribunale di Roma aveva avuto modo di condividere (ordinanza 6 agosto 2015, r.g. 28816/2015), era quella di consentire, pendente il termine per l’impugnazione ex art. 24 c.c., l’accesso all’a.g., facendo prevalere le esigenze di tutela dei diritti asseritamente lesi, piuttosto che prendere, meccanicisticamente, atto che era stato emesso un provvedimento di espulsione, senza compiere, sul medesimo alcuna valutazione incidentale. Pertanto, se l’attore, al momento della proposizione della domanda, possedeva la qualità di associato, se conservava, al momento in cui la causa era trattenuta per la decisione, un interesse ad agire, se il termine ex art. 24 c.c. non fosse ancora decorso o, come nel caso in esame, le espulsioni fossero state addirittura impugnate giudizialmente (e già accolte una prima volta), la sua domanda cautelare poteva essere scrutinata.

 

Se il richiamo al concetto di “più elementare senso di giustizia”, cui ha fatto ricorso la Cassazione nella motivazione della sentenza n. 181/1988, non fosse considerato sufficiente e si ritenesse d’individuare ragioni più “giuridiche” (ma cosa c’è di più giuridico del senso di giustizia invocato dal Palazzaccio?), si potrebbe far ricorso alla natura del procedimento cautelare, ambito nel quale la questione doveva essere risolta.

Iniziamo con l’evidenziare, che tutti i provvedimenti giudiziali con efficacia ex tunc generino, di per sé, un problema di possibile riverbero nei confronti degli atti, materiali o giuridici, assunti in seguito alla deliberazione annullata o dichiarata nulla, sì che non si potrà certo negare la concessione di decisioni cautelari, solo per i possibili riflessi nei confronti di questi atti. Pur tenendo sempre presente il pronunciamento della cassazione in esame, sembra evidente che ciò che conti indagare sia la singola e specifica fattispecie, verificando se l’applicazione del principio generale di efficacia retroattiva delle pronunce di annullamento possa incidere in modo assolutamente e irrimediabilmente negativo, nei confronti degli atti, materiali o giuridici, già assunti in conseguenza della deliberazione invalidata.

E ancora: poiché i giudici, come si vedrà al paragrafo successivo, non hanno limiti con riferimento agli accertamenti incidentali, in presenza della cronologia degli eventi sopra descritta e per la strumentalità dell’eccezione di difetto di legittimazione, non si scorgevano impedimenti a un’analisi, pur generica e sommaria, circa i motivi delle estromissioni e delle ragioni delle loro impugnazioni, unitamente, alle ragioni a fondamento della domanda di annullamento del congresso nazionale. In altri termini, se il tribunale avesse, incidentalmente, accertato la verosimile fondatezza dei motivi d’impugnazione del congresso nazionale e l’illegittimità delle espulsioni non avrebbe avuto alcuna difficoltà a concludere per la loro pacifica strumentalità (e infondatezza), così da realizzare quel principio di “giustizia”, che la Corte di legittimità ha indicato quale faro guida nella soluzione di vicende come quella che qui interessa.

Se, poi, si dovesse fare più specifico riferimento alla giurisprudenza citata dal tribunale, ci si accorgerebbe che la stessa non possa avere quell’effetto espansivo, implicito nella decisione che qui si censura.

Il caso esaminato dalla Corte, infatti, riguardava l’impugnazione, da parte di un socio di una s.p.a., di delibere assembleari per l’aumento di capitale sociale, che, per presumibili vizi da cui erano affette, erano state seguite da una delibera sanante ex art. 2377 comma 8 c.c.. Impugnata anche questa delibera, il giudice investito della nuova causa aveva ritenuto come pregiudiziale la definizione del primo giudizio, atteso che questo, in caso di annullamento delle precedenti, avrebbe travolto inevitabilmente anche la delibera di sanatoria sottoposta a suo scrutinio. In tale quadro, in cui era evidente che si sarebbero avuti riflessi sulla quota di partecipazione al capitale sociale della s.p.a., era stata disposta la

sospensione del processo, senza certo impedire al giudice dall’assumere provvedimenti interinali e inibitori.

La Cassazione, chiamata a dirimere la questione processuale di pregiudizialità e verificare la necessità di proseguire o non proseguire il secondo giudizio, si è limitata ad indicare come, in tema di delibere assembleari annullabili, “la retroattività è pur sempre disciplinata dalla legge ed opera nei soli limiti previsti”; in questo preciso quadro, secondo la Corte, la mancanza di un provvedimento di sospensione della seconda delibera avrebbe impedito, anche in caso di annullamento dei provvedimenti ritenuti pregiudiziali, di travolgere “gli atti esecutivi” conseguenti alla delibera oggetto del giudizio sospeso. Peraltro, poiché la delibera oggetto del secondo giudizio era stata emanata ai sensi dell’art. 2377 comma 8 c.c., al fine di sanare i vizi della prima delibera, la pregiudizialità effettiva era da rinvenirsi nell’ultimo provvedimento impugnato.

La specialità del tema e della natura delle parti è esattamente indicato in sentenza (la cui integrale lettura consente di comprendere appieno la diversità dei casi):

“Ciò, del resto, è del tutto coerente con le esigenze di certezza e stabilità sottese alla disciplina delle società commerciali (massimamente, peraltro, quanto ad aspetti come l’aumento di capitale, rilevante nei confronti di terzi creditori), la gestione delle quali rischierebbe di essere paralizzata dal propagarsi degli effetti della illegittimità delle delibere assembleari oltre un certo segno, salva ovviamente la tutela risarcitoria dei diritti dei soci di minoranza”

Tutt’altra la materia e il campo in cui si muove il caso deciso dal Tribunale di Roma con l’ordinanza 6 agosto 2015, sì che, solo per questo, non si sarebbe dovuto fare applicazione del pronunciamento indicato, che ha una portata, evidentemente, speciale ed eccezionale rispetto al più generale e ordinario principio dell’efficacia retroattiva dei provvedimenti di annullamento.

Per quanto concerne i rapporti con l’esterno, poi, non si vede quali problemi potrebbero mai sorgere – né il tribunale li ha indicati – posto che esisteva una chiara disciplina in argomento, dettata proprio con riferimento alle associazioni: al principio di efficacia ex tunc delle sentenze di nullità e di annullamento si affiancava pur sempre il principio di tutela dei terzi ex art. 23 comma 2 c.c., sì che non vi era alcuna necessità d’attivare ragionamenti analogici tra società commerciali e associazioni non lucrative, per negare il provvedimento richiesto dagli appartenenti al gruppo A.

Per quanto riguarda i rapporti interni, richiamati dal giudice per giustificare il richiamo alla sentenza della cassazione (“attesa la medesima esigenza di tutela dell’aspetto organizzativo dell’ente”), si osserva come non esistesse alcuna omologia tra il caso vagliato da Cassazione n. 4946/2013 e quello di specie, giacché in ambito associativo non v’è alcuna esigenza di tutelare le percentuali di partecipazione al capitale sociale di nessuno.

 

Ma anche a riguardare sotto altro profilo l’orientamento sul quale poggiano le decisioni dell’autorità giudiziaria romana, si scorgerebbero motivi che dovrebbero indurre a escludere qualunque forza espansiva di questa giurisprudenza.

Tra le situazioni di fatto che hanno prodotto le pronunce in esame, vi era un socio che aveva proposto azione d’impugnazione di delibere sociali; successivamente, all’avvio delle azioni giudiziali, tuttavia, per ragioni connesse con l’ordinaria gestione della compagine, gli amministratori avevano proposto e l’assemblea aveva approvato, l’aumento del capitale sociale che, tuttavia, il socio che aveva proposto i giudizi d’impugnazione, non aveva sottoscritto. È noto che azzerato il capitale sociale e deliberata la sua ricostituzione, il socio che non aderisca all’operazione perda la sua qualità, sicché l’autorità giudiziaria, constatando questa circostanza, non avrebbe potuto fare altro che concludere per la perdita della legittimazione attiva (oltre che dell’interesse ad agire). Si tratta, in tutta evidenza, di condizione che consegue a una libera, volontaria e consapevole scelta del membro del consesso.

Nel caso qui in esame, invece, ci si trovava di fronte a una situazione esattamente opposta, perché la sospensione o l’estromissione dall’associazione è la conseguenza non certo di un atto volontario e consapevole dell’associato, quanto di un atto (peraltro illecito) dell’associazione, sì che, solo per questo, stante la rilevante differenza tra fattispecie, non la scelta del tribunale di applicare, de plano, il principio in esame costituisce il frutto di un’evidente e irragionevole forzatura.

Ma le differenze che si apprezzano sono anche altre: qui la decisione estromissiva è strumentale e destinata a non far emettere una decisione sfavorevole all’associazione, là la perdita della qualità di socio è una conseguenza della naturale evoluzione delle vicende societarie; qui siamo di fronte a un atto illecito dell’associazione, là si è di fronte alla più che naturale conseguenza giuridica rispetto a scelte consapevoli e libere dell’ex socio.

Quanto precede avrebbe dovuto sconsigliare l’applicazione dei principi contenuti nelle pronunce richiamate dal Tribunale di Roma.

3) Sugli accertamenti incidentali

Ma vi sono altre e ancor più evidenti ragioni che concorrono a dimostrare la non condivisibilità della soluzione adottata dal Tribunale di Roma.

Si ponga mente al caso, peraltro, qui in esame, di associati che, fondatamente, abbiano impugnato delibere illecite (il Tribunale, infatti, ha constatato sia l’illegittimità degli atti congressuali impugnati sia le espulsioni, dichiarate sospese in sede cautelare) ma che, un secondo prima della decisione da parte del giudice, siano stati, strumentalmente e illegittimamente, sospesi o espulsi per una seconda

volta. E si pensi al caso, anch’esso qui in esame, di un’associazione, che, al fine di bloccare le legittime istanze giudiziali degli iscritti, li sospenda e/o li estrometta per evitare provvedimenti sicuramente sfavorevoli, facendo leva sull’orientamento giurisprudenziale che qui si contrasta.

Occorre chiedersi: (1) in queste situazioni, il giudice dovrebbe, sempre e invariabilmente, limitarsi a prendere atto della sospensione o dell’espulsione, da considerare valida ed efficace, indipendentemente, da qualunque altra considerazione, in una sorta di notarile funzione giudiziaria o, invece, (2) dovrebbe fare altro?

La risposta conseguirà naturale dopo un semplicissimo argomentare.

Innanzitutto, non erreremmo, se affermassimo che la prima azione del giudice dovrebbe consistere nella constatazione dell’effettiva presenza dei provvedimenti di sospensione e/o di espulsione. Accertato che i documenti prodotti dalla convenuta siano, effettivamente, provvedimenti disciplinari, assunti a norma di statuto, occorrerà che il giudice ne verifichi il contenuto, con riferimento alla statuizione finale, che dovrà contenere la sanzione dell’esclusione.

A questo punto occorre chiedersi: la funzione giurisdizionale sarebbe completa con questi adempimenti e il giudice dovrebbe, sempre e invariabilmente, dichiarare il difetto di legittimazione attiva? A mio giudizio, assolutamente no.

S’ipotizzi, infatti, che il magistrato, dopo aver preso, fisicamente, in mano il documento prodotto, averne accertato la provenienza da parte dell’organo statutariamente individuato a emetterlo, leggendone la parte finale alla ricerca della disposizione di condanna o di assoluzione, constati che la sospensione o l’espulsione siano state determinate dall’origine straniera dell’iscritto, il quale, “non avendo la pelle del lindo chiarore ariano è espulso dall’associazione”.

Quale condotta il giudice deve adottare il giudice?

A seguire l’orientamento del Tribunale di Roma, l’a.g. “non può e non deve effettuarsi il vaglio incidentale della legittimità dei provvedimenti di esclusione in questione, posto che gli stessi, ove pure ritenuti invalidi, spiegherebbero comunque gli effetti loro propri, non passibili di essere sospesi o rimossi nel presente giudizio”.

La conclusione non può essere condivisa, perché errata sia per ragioni giuridiche sia per ragioni logiche.

Innanzitutto, non esiste alcuna norma, né sostanziale né procedurale, che inibisca al giudice lo svolgimento di accertamenti incidentali su questioni pregiudiziali, essendo, invece, pacifica l’esistenza del principio contrario per cui:

“Il giudice, come regola generale, conosce di tutti i diritti pregiudiziali senza limiti, e senza che quanto egli abbia a dire dell’esistenza e del modo di essere del diritto pregiudiziale, rilevante per la decisione del diritto dipendente, abbia effetti di giudicato in ordine al diritto pregiudiziale” (Luiso, Manuale di Diritto Processuale Civile, pag. 272).

“Il principio accolto dall’ordinamento è quello della cognizione incidentale delle situazioni pregiudiziali in senso tecnico: il giudice ha il potere-dovere di risolvere tutte le questioni (non soltanto civili, ma anche amministrative e penali), dalle quali dipende la definizione del processo dinanzi a lui instaurato, e tale decisione ha efficacia limitata al giudizio in corso” (Menchini, Accertamenti Incidentali, Treccani, Diritto on line, con richiami a Menestrina, La Pregiudiziale nel processo civile, 119; Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, 110, 342, 352, 359).

La fonte normativa della condotta da tenere in considerazione è, in tutta evidenza, l’art. 34 del codice di rito, il quale, nel disciplinare il trattamento di alcuni accertamenti incidentali, introduce nell’ordinamento processuale il generale principio segnalato dalla dottrina. L’affermazione svolta dal Tribunale di Roma sopra virgolettata è, dunque, giuridicamente non condivisibile e contrasta con la quotidiana prassi giudiziale, ove i magistrati, del tutto correttamente, nell’esercizio dei loro poteri di accertamento incidentale, disapplicano finanche i provvedimenti dell’autorità amministrativa che, per loro natura, sono addirittura assistiti da presunzione di legittimità.

Dimostrato, dunque, che il giudice non solo non possa sottrarsi all’accertamento incidentale ma, anzi, debba eseguirlo, occorre ora stabilire il quomodo.

La questione della presunta assenza o della presunta perdita della legittimazione attiva della parte attrice è, in senso logico, una pregiudiziale nell’iter decisorio, mentre in senso giuridico, è un’eccezione, con la conseguenza che è compito ordinario del giudice, stabilire se esistano fatti modificativi, estintivi o impeditivi in grado di bloccare le pretese attoree. Quando la parte convenuta esercita un’eccezione, non occorrono altre particolari sollecitazioni al giudice per esaminarla, dovendo il magistrato delibarla, per il solo fatto che sia stata proposta da una parte, nell’esercizio dei propri poteri processuali. Logica ed esperienza comune insegnano come questo compito debba essere svolto: in primo luogo, saranno eseguiti quegli accertamenti minimi sui quali ci si è sopra soffermati (esistenza del documento e delle caratteristiche formali invocate dalla convenuta), in secondo luogo, occorrerà verificare se l’eccezione porti con sé il crisma della legalità, nel senso che l’evento, nel nostro caso impeditivo, contrapposto alla pretesa degli attori, sia conforme alla legge e al diritto. La natura di quest’analisi, com’è facile ammettere, è immanente in ogni accertamento giurisdizionale, in qualunque modo, in qualunque tempo e da qualunque giudice sia eseguito, con la conseguenza che dovranno essere respinte quelle eccezioni, dalle quali emerga chiara la violazione del diritto.

 

Così, se un lavoratore convenisse in giudizio il proprio datore di lavoro per ottenere il diritto al pagamento degli stipendi, il giudice non potrebbe certo respingere la domanda, accogliendo l’eccezione della convenuta, fondata su una dichiarazione che nulla è dovuto al prestatore d’opera, per la rinuncia preventiva alla retribuzione. Se il giudice dovesse accertare che la pretesa di pagamento di un attore fosse contrastata dal convenuto in dipendenza di una quietanza, nella quale si è dato atto della rinuncia al credito, sotto minaccia di lesioni personali al creditore, il giudice non potrebbe certo accogliere l’efficacia di questo fatto estintivo, specie se il predetto atto, sia oggetto di altro giudizio di annullamento. Se, per finire, il giudice dovesse accertare la perdita di legittimazione attiva di parte attrice, per un sopravvenuto provvedimento di espulsione comminato dalla convenuta a cagione del colore della pelle dell’associato estromesso, non potrebbe certo valorizzarlo come elemento impeditivo della pretesa dell’istante. Compito del magistrato chiamato a vagliare un’eccezione è, infatti, sempre quello di verificare che i fatti modificativi, impeditivi ed estintivi siano conformi alla legge, diversamente, tra i mezzi di estinzione delle obbligazioni, sarebbe ricompreso anche il fatto illecito del debitore, la qual cosa non può proprio essere.

Applicate queste regole al caso in esame, il Tribunale avrebbe dovuto vagliare, in via incidentale, la questione pregiudiziale della loro validità, peraltro, tenendo in considerazione cosa fosse accaduto nel caso in esame, e misurarsi con l’istituto dell’abuso del diritto, solo che si fosse considerato: che i provvedimenti espulsivi erano stati emessi nel febbraio 2018, una settimana prima che fosse discussa l’istanza cautelare degli attori e che ha portato il Tribunale di Roma a disattenderla, per la perdita della legittimazione attiva; che queste espulsioni erano state sospese in via cautelare nell’ottobre 2018, con dichiarazione d’illegittimità dei provvedimenti del febbraio 2018; che poco prima della nuova discussione sulla sospensione erano stati emessi nuovi provvedimenti espulsivi.

4) Il superamento del precedente orientamento

La stessa sezione del Tribunale di Roma (rectius: lo stesso magistrato redattore del pronunciamento in esame), di fronte alle eccezioni di:

“… difetto di legittimazione attiva originario, poiché al momento della notifica dell’atto di citazione nessuno degli attori aveva più lo status di consigliere, essendo stata formalizzata la loro decadenza tra il 14 e il 20 febbraio 2015 e non avendo gli stessi impugnato tali provvedimenti in via autonoma;
… difetto di legittimazione attiva sopravvenuto degli attori, atteso che gli stessi medio tempore erano stati espulsi dal sindacato e molti avevano dato vita ad una nuova associazione sindacale …”

aveva così statuito (ordinanza 6 agosto 2015):

“… Anche le eccezioni di inammissibilità del ricorso per difetto di legittimazione attiva originaria e sopravvenuta e per difetto di interesse ad agire non sono fondate. Parte convenuta sottolinea che gli attori e gli intervenuti, allo stato, non sono né componenti del Consiglio Nazionale, per essere stati dichiarati decaduti da tale carica, né associati UGL, per essere stati espulsi con provvedimenti adottati nelle more del presente giudizio. L’affermazione della convenuta secondo la quale gli attori non avrebbero legittimazione attiva originaria, per non aver impugnato i provvedimenti di decadenza in via autonoma e non aver sanato tale condizione, è priva di pregio. Il primo provvedimento impugnato dagli attori in ordine logico è proprio quello che dichiara la decadenza degli stessi dalla carica di consiglieri, delibera che viene ritenuta illegittima per l’insussistenza delle disposizioni regolamentari ivi richiamate, con conseguente rivendicazione di tale qualifica come tuttora in essere. Sulla base di quanto affermato nell’atto introduttivo (illegittimità e invalidità della delibera che ha disposto la decadenza degli attori dal Consiglio Nazionale), vi è quindi corrispondenza tra le persone degli attori e coloro che nella domanda sono indicati quali titolari del diritto fatto valere (diritto ad essere tuttora riconosciuti quali componenti del Consiglio Nazionale per effetto dell’annullamento della delibera impugnata). Quanto al difetto di legittimazione attiva sopravvenuta, per essere stati molti tra gli attori e gli intervenuti espulsi con successivi provvedimenti della Segreteria Generale, occorre osservare quanto segue. È bensì vero che l’art. 23 c.c. attribuisce il potere di impugnare le deliberazioni dell’assemblea agli organi dell’ente, agli associati e al pubblico ministero. La giurisprudenza della Suprema Corte ha tuttavia chiarito che: “la legittimazione ad impugnare le deliberazioni assembleari di organismi con struttura associativa è subordinata alla titolarità della qualità di socio, attuale o almeno sussistente all’epoca della deliberazione stessa, sempre che, in tale ultimo caso, dall’ex socio si faccia valere in giudizio un diritto attuale che risulti leso dall’atto impugnato” (Sez. 1, Sentenza n. 952 del 26/01/1993, Rv. 480457; Sez. 1, Sentenza n. 181 del 13/01/1988, Rv. 456798). Nel caso di specie, gli attori hanno agito quando erano ancora associati e non era intervenuto alcun provvedimento di espulsione. I diritti che gli stessi intendono far valere si innestano in un complesso contenzioso che vede fronteggiarsi diverse correnti all’interno dell’associazione sindacale convenuta. Nell’ambito di detto contenzioso, gli attori mirano a recuperare i propri incarichi e la propria posizione all’interno degli organi assembleari, anche al fine di continuare ad interagire con la corrente avversa nel confronto finalizzato all’elezione dell’organo di governo. Ove l’illegittimità della decadenza dichiarata con le deliberazioni impugnate dovesse essere accertata, ne deriverebbero conseguenze potenzialmente invalidanti con riferimento a diversi ulteriori atti posti in essere dal Consiglio Nazionale senza la partecipazione dei consiglieri dichiarati decaduti, compresa l’elezione del Segretario Generale. È chiaro, quindi, l’interesse degli attori ad agire nel presente giudizio: ottenere una pronuncia che costituisca la base delle ulteriori impugnative in corso o ancora da proporre in relazione agli atti posti in essere successivamente e consequenzialmente collegati alle delibere impugnate. Occorre infine osservare che gli attori potrebbero ancora impugnare i citati provvedimenti di esclusione,

non essendo ancora decorso il termine semestrale di cui all’art. 24 c.c. A ben vedere, infine, solo alcuni tra gli attori risultano essere stati colpiti da provvedimenti di espulsione, mentre molti mantengono tuttora la qualifica di associato. Le eccezioni preliminari formulate da parte convenuta sotto questo profilo non sono quindi accoglibili.”

5) Conclusioni

Il pronunciamento in commento non può, dunque, condividersi non tanto e non solo per il contrasto con il dovere d’eseguire gli accertamenti incidentali nei termini indicati dalla dottrina, non tanto e non solo perché si sia posta in contrasto con diverso orientamento della giurisprudenza di legittimità, quanto per la palpabile e materica ingiustizia della decisione, che, peraltro e come dimostrato, apre una vera e propria autostrada all’abuso del diritto.

Gennaio 2020

Roberto Mattioni avvocato del foro di Milano

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1) Il caso

Occupandosi con frequenza di vicende di natura associativa, specie per il posizionamento nella capitale della sede di sindacati, di partiti e di associazioni di portata nazionale, la sezione specializzata del Tribunale di Roma ha avuto spesso modo di esprimersi con riguardo alla validità delle deliberazioni degli organi di associazioni riconosciute e non riconosciute (assemblee, organo amministrativo, probiviri e organi disciplinari).

Azione tipica, esercitata con una certa frequenza dagli associati in sede giudiziale, è quella d’impugnazione delle determinazioni assembleari circa la nomina degli organi amministrativi, spesso esperite ai sensi anche dell’art. 23 comma 3 c.c., con richiesta, pertanto, d’assunzione di provvedimento in chiave cautelare, volto a paralizzare l’efficacia dell’atto oggetto d’impugnazione.

Un intenso confronto giudiziale, svoltosi tra due gruppi di iscritti a un’associazione sindacale a diffusione nazionale, offre l’occasione per vagliare e analizzare l’orientamento del Tribunale di Roma, sezione specializzata delle imprese, in tema di legittimazione ad agire.

Contestando la validità della nomina al vertice di un sindacato, un gruppo di associati (che chiameremo gruppo A) adì l’autorità giudiziaria della capitale, per ottenere la sospensione e, quindi, l’annullamento, di tutte le deliberazioni assunte dal congresso nazionale, con particolare riferimento alle nomine al vertice dell’associazione (che chiameremo gruppo B). In sede cautelare, il Tribunale accolse le istanze proposte, ex art. 23 comma 3 c.c., dal gruppo A e proseguì la causa nel merito. Il gruppo B, soccombente in questo primo frangente giudiziale, celebrò un nuovo congresso nazionale, in cui replicarono le medesime decisioni già oggetto di sospensione e il gruppo A ripropose analoga impugnazione. Parallelamente all’avvio del contenzioso, il gruppo B assunse una serie di provvedimenti espulsivi di tutti gli associati che, via via, promuovevano azioni giudiziali nei loro confronti, fondando l’estromissione dal consesso, tra l’altro, sulle iniziative giudiziali intraprese contro i rappresentanti del gruppo B.

Nel secondo giudizio di opposizione alle delibere congressuali, gli associati del gruppo B si presentarono all’udienza di sospensiva con provvedimenti di espulsione degli associati del gruppo A, chiedendo la reiezione dell’istanza cautelare perché proposta da soggetti non più appartenenti all’associazione e, come tali, privi della legittimazione attiva. Gli iscritti del gruppo A opposero d’avere, medio tempore, impugnato le espulsioni, da considerarsi illegittime e che questa circostanza non avrebbe ostacolato una pronuncia sul merito dell’istanza cautelare come del resto già deciso dallo stesso magistrato investito della

questione (Tribunale di Roma, ordinanza 6 agosto 2015, causa r.g. 28816/2015); aggiunsero, in ogni caso, che le questioni sulla legittimazione attiva, attenendo alle condizioni dell’azione, dovessero essere oggetto di accertamento incidentale.

Retrocedendo dal proprio originario orientamento, il giudice statuì:

“… allo stato e tenuto conto della sommaria cognizione propria della presente fase cautelare, nessuno degli odierni ricorrenti risulta rivestire la qualifica di associato o ricoprire cariche all’interno dell’ente … non appare rilevante quanto dedotto dalla difesa dei predetti nel corso dell’udienza di comparizione delle parti con riferimento alla eccezione in esame. Ed infatti, la circostanza che i provvedimenti di espulsione siano oggetto di impugnazione dinanzi all’autorità giudiziaria ovvero che non siano ancora scaduti i termini per la relativa impugnazione non esclude che – allo stato ed in assenza di sospensione – gli stessi siano produttivi di effetti. Né, del resto, è consentito a questo giudice effettuare un qualsivoglia accertamento di tipo incidentale in ordine a provvedimenti che non sono oggetto di impugnazione nel presente giudizio. Ed infatti, come osservato dalla Suprema Corte, se è vero che l’annullamento di una delibera ha effetto retroattivo, è anche vero che vi sono alcuni effetti che non possono in ogni caso essere azzerati. In particolare è importante evidenziare, ad esempio, che gli atti compiuti dagli amministratori illegittimamente nominati sopravvivono anche all’eventuale annullamento della nomina stessa, dovendo la regola della retroattività giuridica della sentenza di annullamento di una delibera essere necessariamente temperata dalla limitata possibilità di ripristinazione della situazione giuridica preesistente in senso materiale. Dunque la retroattività degli effetti delle sentenze di annullamento non è assoluta, ma incontra dei limiti, anche al fine di garantire la certezza dei rapporti medio tempore sorti. Tale principio risulta affermato in recenti decisioni della Cassazione, come p.es. in materia di annullamento di delibere di aumento di capitale, incidenti sulla consistenza delle quote di partecipazione al capitale sociale e quindi sul ‘peso’ del voto dei singoli soci e, in ultima analisi, sull’approvazione delle successive delibere assembleari (cfr. Cass. 4946/13: “L’annullabilità di una delibera di aumento del capitale sociale, laddove non ne sia stata disposta la sospensione dell’esecuzione ai sensi dell’art. 2378, terzo comma, cod. civ., non incide -ancorché ne possa derivare una modifica della composizione della maggioranza allorquando non sia stata seguita dall’integrale esercizio del diritto di opzione da parte dei vecchi soci- sulla validità delle successive deliberazioni adottate con la nuova maggioranza, poiché l’omessa adozione del provvedimento di sospensione rende legittimi gli atti esecutivi della prima deliberazione, resistendo, peraltro, tale legittimità anche al sopravvenire del suo annullamento, la cui efficacia, sebbene in linea di principio retroattiva, è pur sempre regolata dalla legge ed operante nei soli limiti da essa sanciti, tanto rivelandosi affatto coerente con le esigenze di certezza e stabilità sottese alla disciplina delle società commerciali”). È stato in particolare precisato, sul presupposto della mancata sospensione ex art. 2378, 3° comma, c.c. della deliberazione poi annullata, che “… (è)… vero che l’annullamento di un negozio

ha in linea di principio effetto retroattivo; tuttavia la retroattività è pur sempre disciplinata dalla legge ed opera nei soli limiti da essa previsti. Viene qui in esame il tema della legittimità degli atti posti in essere in esecuzione di delibera assembleare annullabile, cui attiene, appunto, l’istituto della sospensione ai sensi dell’art. 2378 c.c. Come la “sospensione dell’esecuzione della deliberazione” (art 2378 c.c., comma 3), disposta dal giudice, rende illegittimi gli atti di esecuzione che vengano ciò nonostante posti in essere, così la mancanza di un provvedimento di sospensione comporta la legittimità degli atti esecutivi, ancorché relativi a una delibera annullabile. E tale legittimità resiste al sopravvenire dell’annullamento: in caso contrario l’istituto della sospensione non avrebbe alcun senso, visto che gli effetti giuridici sarebbero i medesimi sia che l’impugnante abbia ottenuto la sospensione della delibera, sia che non l’abbia ottenuta. …” e che “… pertanto, se una delibera di aumento del capitale sociale, ancorché annullabile, non è stata sospesa, e dunque è stata legittimante eseguita, il nuovo assetto delle partecipazioni risultante dalla sottoscrizione dell’aumento è a sua volta legittimo, e legittime sono, perciò, le successive deliberazioni assunte con la nuova maggioranza …” con la conseguenza che “… di effetto “a catena” sulla legittimità delle delibere in sequenza non può dunque parlarsi. …” (cfr. Cass. 4946/13, in motivazione). Le predette considerazioni, seppur dettate con riferimento alla materia societaria, appaiono pienamente valide e condivisibili anche nell’ambito associativo, attesa la medesima esigenza di tutela dell’aspetto organizzativo dell’ente. Ne consegue che – se in assenza di sospensione – le delibere seppur viziate sono comunque produttive di effetti, alcuni dei quali tali da non poter essere travolti neanche dalla eventuale pronuncia di annullamento, a maggior ragione deve escludersi che sia possibile, per un giudice non investito della relativa impugnazione, accertare incidentalmente la eventuale invalidità di delibere impugnate in altra sede e non tener conto dei relativi effetti, quando tali effetti non siano stati sospesi dal giudice investito dell’impugnazione”.

Nella sostanza, quindi, impossibilità assoluta di statuire sul merito.

Gli appartenenti del gruppo A, tuttavia, che medio tempore avevano impugnato le ritorsive espulsioni, ottennero dallo stesso Tribunale provvedimento d’accertamento dell’illegittimità della loro estromissione, dimostrando tanto la strumentalità rispetto all’esigenza dell’O.S. di bloccare la loro azione quanto l’intrinseca illegittimità. Ottenuta così la loro reintegrazione nel consesso associativo, riproposero nel giudizio di merito ancora pendente, una seconda istanza di sospensione ex art. 23 comma 3 c.c., ma il gruppo B emise altri provvedimenti espulsivi, subito impugnati per la seconda volta, con lo scopo di riproporre la tesi della perdita di legittimazione attiva.

Com’è evidente, la sequenza potrebbe ripetersi all’infinito: un associato o un socio impugnano una delibera; il giorno dell’udienza l’associazione o la società producono un provvedimento di sospensione, o di esclusione o di espulsione; l’associato e il socio le impugnano ottenendo la sospensione dell’efficacia e riproponendo domanda di sospensione cautelare ex art. 23 comma 3 c.c.; il giorno

dell’udienza l’associazione o la società producono nuovo provvedimento estromissivo …

Il convincimento del Tribunale di Roma rispetto al proprio orientamento, secondo cui un provvedimento di espulsione, qualunque esso sia, debba considerarsi ostacolo assoluto all’accertamento di domande formulate, anche in via cautelare, da soci e/o associati, è talmente radicato, da farne applicazione anche in corso di giudizio. Infatti, nella prima causa promossa dal gruppo A con lo scopo di annullare le deliberazioni del primo congresso nazionale e per il quale era stata ottenuta la sospensione ex art. 23 comma 3 c.c., il gruppo B depositò, unitamente alla comparsa conclusionale, provvedimenti di espulsioni di alcuni dei ricorrenti, che avevano proposto il primo giudizio d’impugnazione e, in sede decisoria, il Tribunale di Roma statuì la perdita di legittimazione attiva di costoro, fondandola sull’allegazione unita all’atto conclusivo del giudizio (per la cronaca, si segnala che la dimenticanza di un paio di ricorrenti, nei molti procedimenti di espulsione dei sostenitori del gruppo A, permise l’emissione della sentenza del merito, che confermò l’annullamento del congresso e di tute le deliberazioni, ricalcando le motivazioni addotte in sede cautelare).

2) Il contrario orientamento della giurisprudenza di legittimità

L’orientamento del Tribunale di Roma, fondato sul richiamo a cassazione n. 4946/2013 (che, peraltro, come si chiarirà di seguito, non si adatta al caso di specie), contrasta con l’orientamento giurisprudenziale di Cassazione n. 181/1988 (analogamente, Cassazione n. 952/1993; Tribunale di Roma, 6 agosto 2015), secondo cui:

“Il socio escluso, pur dopo la sua uscita dalla società, può impugnare una delibera assembleare adottata al tempo in cui egli era ancora socio, quando sia titolare di un diritto attuale che risulti leso dalla delibera stessa”

Assai significativamente, in motivazione, si chiarisce:

“Invero tutte le volte in cui un diritto astrattamente configurabile dell’ex socio nei confronti della società in relazione alla sua passata partecipazione ad essa dipenda dall’accertamento della legittimità di una delibera assembleare presa quando egli era ancora socio, negargli la possibilità di impugnarla significherebbe negargli la possibilità concreta di far valere quel diritto medesimo, con evidente compromissione del più elementare senso di giustizia … In tali casi è evidente l’interesse dell’ex socio ad impugnare la delibera assembleare della società pur dopo la sua uscita dalla medesima ed è sufficiente, quindi, che egli dia la prova di tale interesse per legittimarsi all’esercizio della relativa azione”

Nel caso di specie, pertanto, vista la partecipazione all’associazione, sino alla settimana prima dell’udienza di discussione dell’istanza cautelare, la

legittimazione attiva doveva considerarsi presente e non poteva essere negata, in dipendenza di sospensioni ed estromissioni, la cui natura strumentale era emersa nel momento in cui si accertava l’illegittimità delle estromissioni, tanto d’apparire alla stregua di un vero e proprio abuso del diritto.

Richiamando Cassazione n. 4946/2013, secondo cui la retroattività delle sentenze di annullamento non è assoluta, ma incontra limiti, anche al fine di garantire la certezza dei rapporti medio tempore sorti, il Tribunale ha affermato che:

“… se – in assenza di sospensione – le delibere seppur viziate sono comunque produttive di effetti, alcuni dei quali tali da non poter essere travolti neanche dalla eventuale pronuncia di annullamento, a maggior ragione deve escludersi che sia possibile, per un giudice non investito della relativa impugnazione accertare incidentalmente la eventuale invalidità di delibere impugnate in altra sede e non tenere conto dei relativi effetti, quando tali effetti non siano stati sospesi dal giudice investito dell’impugnazione.”

Il problema di fondo da risolvere è chiaro e facilmente individuabile: se un associato, che ha impugnato mesi o anni prima una deliberazione dell’associazione alla quale, per moltissimo tempo, è stato iscritto e di cui si considera ancora parte, venga raggiunto da un provvedimento di espulsione il giorno prima della discussione dell’istanza cautelare o il giorno prima dell’udienza di p.c., il giudice investito della decisione sull’impugnazione deve, invariabilmente, statuire l’assenza di legittimazione attiva, sul presupposto che, sino a quando non interverrà un provvedimento sospensivo dell’espulsione, questa deve ritenersi efficace?

Questo problema è stato affrontato, specificamente, dalla giurisprudenza di legittimità, sopra citata, la quale è giunta alle conclusioni riportate, non solo cogliendo ma, addirittura, denunciando espressamente l’ingiustizia alla quale si approderebbe, se si facesse meccanica e acritica applicazione del principio di automatica efficacia del provvedimento espulsivo non ancora sospeso, come accaduto nel caso di specie.

La soluzione suggerita dai giudici di legittimità e che anche il Tribunale di Roma aveva avuto modo di condividere (ordinanza 6 agosto 2015, r.g. 28816/2015), era quella di consentire, pendente il termine per l’impugnazione ex art. 24 c.c., l’accesso all’a.g., facendo prevalere le esigenze di tutela dei diritti asseritamente lesi, piuttosto che prendere, meccanicisticamente, atto che era stato emesso un provvedimento di espulsione, senza compiere, sul medesimo alcuna valutazione incidentale. Pertanto, se l’attore, al momento della proposizione della domanda, possedeva la qualità di associato, se conservava, al momento in cui la causa era trattenuta per la decisione, un interesse ad agire, se il termine ex art. 24 c.c. non fosse ancora decorso o, come nel caso in esame, le espulsioni fossero state addirittura impugnate giudizialmente (e già accolte una prima volta), la sua domanda cautelare poteva essere scrutinata.

 

Se il richiamo al concetto di “più elementare senso di giustizia”, cui ha fatto ricorso la Cassazione nella motivazione della sentenza n. 181/1988, non fosse considerato sufficiente e si ritenesse d’individuare ragioni più “giuridiche” (ma cosa c’è di più giuridico del senso di giustizia invocato dal Palazzaccio?), si potrebbe far ricorso alla natura del procedimento cautelare, ambito nel quale la questione doveva essere risolta.

Iniziamo con l’evidenziare, che tutti i provvedimenti giudiziali con efficacia ex tunc generino, di per sé, un problema di possibile riverbero nei confronti degli atti, materiali o giuridici, assunti in seguito alla deliberazione annullata o dichiarata nulla, sì che non si potrà certo negare la concessione di decisioni cautelari, solo per i possibili riflessi nei confronti di questi atti. Pur tenendo sempre presente il pronunciamento della cassazione in esame, sembra evidente che ciò che conti indagare sia la singola e specifica fattispecie, verificando se l’applicazione del principio generale di efficacia retroattiva delle pronunce di annullamento possa incidere in modo assolutamente e irrimediabilmente negativo, nei confronti degli atti, materiali o giuridici, già assunti in conseguenza della deliberazione invalidata.

E ancora: poiché i giudici, come si vedrà al paragrafo successivo, non hanno limiti con riferimento agli accertamenti incidentali, in presenza della cronologia degli eventi sopra descritta e per la strumentalità dell’eccezione di difetto di legittimazione, non si scorgevano impedimenti a un’analisi, pur generica e sommaria, circa i motivi delle estromissioni e delle ragioni delle loro impugnazioni, unitamente, alle ragioni a fondamento della domanda di annullamento del congresso nazionale. In altri termini, se il tribunale avesse, incidentalmente, accertato la verosimile fondatezza dei motivi d’impugnazione del congresso nazionale e l’illegittimità delle espulsioni non avrebbe avuto alcuna difficoltà a concludere per la loro pacifica strumentalità (e infondatezza), così da realizzare quel principio di “giustizia”, che la Corte di legittimità ha indicato quale faro guida nella soluzione di vicende come quella che qui interessa.

Se, poi, si dovesse fare più specifico riferimento alla giurisprudenza citata dal tribunale, ci si accorgerebbe che la stessa non possa avere quell’effetto espansivo, implicito nella decisione che qui si censura.

Il caso esaminato dalla Corte, infatti, riguardava l’impugnazione, da parte di un socio di una s.p.a., di delibere assembleari per l’aumento di capitale sociale, che, per presumibili vizi da cui erano affette, erano state seguite da una delibera sanante ex art. 2377 comma 8 c.c.. Impugnata anche questa delibera, il giudice investito della nuova causa aveva ritenuto come pregiudiziale la definizione del primo giudizio, atteso che questo, in caso di annullamento delle precedenti, avrebbe travolto inevitabilmente anche la delibera di sanatoria sottoposta a suo scrutinio. In tale quadro, in cui era evidente che si sarebbero avuti riflessi sulla quota di partecipazione al capitale sociale della s.p.a., era stata disposta la

sospensione del processo, senza certo impedire al giudice dall’assumere provvedimenti interinali e inibitori.

La Cassazione, chiamata a dirimere la questione processuale di pregiudizialità e verificare la necessità di proseguire o non proseguire il secondo giudizio, si è limitata ad indicare come, in tema di delibere assembleari annullabili, “la retroattività è pur sempre disciplinata dalla legge ed opera nei soli limiti previsti”; in questo preciso quadro, secondo la Corte, la mancanza di un provvedimento di sospensione della seconda delibera avrebbe impedito, anche in caso di annullamento dei provvedimenti ritenuti pregiudiziali, di travolgere “gli atti esecutivi” conseguenti alla delibera oggetto del giudizio sospeso. Peraltro, poiché la delibera oggetto del secondo giudizio era stata emanata ai sensi dell’art. 2377 comma 8 c.c., al fine di sanare i vizi della prima delibera, la pregiudizialità effettiva era da rinvenirsi nell’ultimo provvedimento impugnato.

La specialità del tema e della natura delle parti è esattamente indicato in sentenza (la cui integrale lettura consente di comprendere appieno la diversità dei casi):

“Ciò, del resto, è del tutto coerente con le esigenze di certezza e stabilità sottese alla disciplina delle società commerciali (massimamente, peraltro, quanto ad aspetti come l’aumento di capitale, rilevante nei confronti di terzi creditori), la gestione delle quali rischierebbe di essere paralizzata dal propagarsi degli effetti della illegittimità delle delibere assembleari oltre un certo segno, salva ovviamente la tutela risarcitoria dei diritti dei soci di minoranza”

Tutt’altra la materia e il campo in cui si muove il caso deciso dal Tribunale di Roma con l’ordinanza 6 agosto 2015, sì che, solo per questo, non si sarebbe dovuto fare applicazione del pronunciamento indicato, che ha una portata, evidentemente, speciale ed eccezionale rispetto al più generale e ordinario principio dell’efficacia retroattiva dei provvedimenti di annullamento.

Per quanto concerne i rapporti con l’esterno, poi, non si vede quali problemi potrebbero mai sorgere – né il tribunale li ha indicati – posto che esisteva una chiara disciplina in argomento, dettata proprio con riferimento alle associazioni: al principio di efficacia ex tunc delle sentenze di nullità e di annullamento si affiancava pur sempre il principio di tutela dei terzi ex art. 23 comma 2 c.c., sì che non vi era alcuna necessità d’attivare ragionamenti analogici tra società commerciali e associazioni non lucrative, per negare il provvedimento richiesto dagli appartenenti al gruppo A.

Per quanto riguarda i rapporti interni, richiamati dal giudice per giustificare il richiamo alla sentenza della cassazione (“attesa la medesima esigenza di tutela dell’aspetto organizzativo dell’ente”), si osserva come non esistesse alcuna omologia tra il caso vagliato da Cassazione n. 4946/2013 e quello di specie, giacché in ambito associativo non v’è alcuna esigenza di tutelare le percentuali di partecipazione al capitale sociale di nessuno.

 

Ma anche a riguardare sotto altro profilo l’orientamento sul quale poggiano le decisioni dell’autorità giudiziaria romana, si scorgerebbero motivi che dovrebbero indurre a escludere qualunque forza espansiva di questa giurisprudenza.

Tra le situazioni di fatto che hanno prodotto le pronunce in esame, vi era un socio che aveva proposto azione d’impugnazione di delibere sociali; successivamente, all’avvio delle azioni giudiziali, tuttavia, per ragioni connesse con l’ordinaria gestione della compagine, gli amministratori avevano proposto e l’assemblea aveva approvato, l’aumento del capitale sociale che, tuttavia, il socio che aveva proposto i giudizi d’impugnazione, non aveva sottoscritto. È noto che azzerato il capitale sociale e deliberata la sua ricostituzione, il socio che non aderisca all’operazione perda la sua qualità, sicché l’autorità giudiziaria, constatando questa circostanza, non avrebbe potuto fare altro che concludere per la perdita della legittimazione attiva (oltre che dell’interesse ad agire). Si tratta, in tutta evidenza, di condizione che consegue a una libera, volontaria e consapevole scelta del membro del consesso.

Nel caso qui in esame, invece, ci si trovava di fronte a una situazione esattamente opposta, perché la sospensione o l’estromissione dall’associazione è la conseguenza non certo di un atto volontario e consapevole dell’associato, quanto di un atto (peraltro illecito) dell’associazione, sì che, solo per questo, stante la rilevante differenza tra fattispecie, non la scelta del tribunale di applicare, de plano, il principio in esame costituisce il frutto di un’evidente e irragionevole forzatura.

Ma le differenze che si apprezzano sono anche altre: qui la decisione estromissiva è strumentale e destinata a non far emettere una decisione sfavorevole all’associazione, là la perdita della qualità di socio è una conseguenza della naturale evoluzione delle vicende societarie; qui siamo di fronte a un atto illecito dell’associazione, là si è di fronte alla più che naturale conseguenza giuridica rispetto a scelte consapevoli e libere dell’ex socio.

Quanto precede avrebbe dovuto sconsigliare l’applicazione dei principi contenuti nelle pronunce richiamate dal Tribunale di Roma.

3) Sugli accertamenti incidentali

Ma vi sono altre e ancor più evidenti ragioni che concorrono a dimostrare la non condivisibilità della soluzione adottata dal Tribunale di Roma.

Si ponga mente al caso, peraltro, qui in esame, di associati che, fondatamente, abbiano impugnato delibere illecite (il Tribunale, infatti, ha constatato sia l’illegittimità degli atti congressuali impugnati sia le espulsioni, dichiarate sospese in sede cautelare) ma che, un secondo prima della decisione da parte del giudice, siano stati, strumentalmente e illegittimamente, sospesi o espulsi per una seconda

volta. E si pensi al caso, anch’esso qui in esame, di un’associazione, che, al fine di bloccare le legittime istanze giudiziali degli iscritti, li sospenda e/o li estrometta per evitare provvedimenti sicuramente sfavorevoli, facendo leva sull’orientamento giurisprudenziale che qui si contrasta.

Occorre chiedersi: (1) in queste situazioni, il giudice dovrebbe, sempre e invariabilmente, limitarsi a prendere atto della sospensione o dell’espulsione, da considerare valida ed efficace, indipendentemente, da qualunque altra considerazione, in una sorta di notarile funzione giudiziaria o, invece, (2) dovrebbe fare altro?

La risposta conseguirà naturale dopo un semplicissimo argomentare.

Innanzitutto, non erreremmo, se affermassimo che la prima azione del giudice dovrebbe consistere nella constatazione dell’effettiva presenza dei provvedimenti di sospensione e/o di espulsione. Accertato che i documenti prodotti dalla convenuta siano, effettivamente, provvedimenti disciplinari, assunti a norma di statuto, occorrerà che il giudice ne verifichi il contenuto, con riferimento alla statuizione finale, che dovrà contenere la sanzione dell’esclusione.

A questo punto occorre chiedersi: la funzione giurisdizionale sarebbe completa con questi adempimenti e il giudice dovrebbe, sempre e invariabilmente, dichiarare il difetto di legittimazione attiva? A mio giudizio, assolutamente no.

S’ipotizzi, infatti, che il magistrato, dopo aver preso, fisicamente, in mano il documento prodotto, averne accertato la provenienza da parte dell’organo statutariamente individuato a emetterlo, leggendone la parte finale alla ricerca della disposizione di condanna o di assoluzione, constati che la sospensione o l’espulsione siano state determinate dall’origine straniera dell’iscritto, il quale, “non avendo la pelle del lindo chiarore ariano è espulso dall’associazione”.

Quale condotta il giudice deve adottare il giudice?

A seguire l’orientamento del Tribunale di Roma, l’a.g. “non può e non deve effettuarsi il vaglio incidentale della legittimità dei provvedimenti di esclusione in questione, posto che gli stessi, ove pure ritenuti invalidi, spiegherebbero comunque gli effetti loro propri, non passibili di essere sospesi o rimossi nel presente giudizio”.

La conclusione non può essere condivisa, perché errata sia per ragioni giuridiche sia per ragioni logiche.

Innanzitutto, non esiste alcuna norma, né sostanziale né procedurale, che inibisca al giudice lo svolgimento di accertamenti incidentali su questioni pregiudiziali, essendo, invece, pacifica l’esistenza del principio contrario per cui:

“Il giudice, come regola generale, conosce di tutti i diritti pregiudiziali senza limiti, e senza che quanto egli abbia a dire dell’esistenza e del modo di essere del diritto pregiudiziale, rilevante per la decisione del diritto dipendente, abbia effetti di giudicato in ordine al diritto pregiudiziale” (Luiso, Manuale di Diritto Processuale Civile, pag. 272).

“Il principio accolto dall’ordinamento è quello della cognizione incidentale delle situazioni pregiudiziali in senso tecnico: il giudice ha il potere-dovere di risolvere tutte le questioni (non soltanto civili, ma anche amministrative e penali), dalle quali dipende la definizione del processo dinanzi a lui instaurato, e tale decisione ha efficacia limitata al giudizio in corso” (Menchini, Accertamenti Incidentali, Treccani, Diritto on line, con richiami a Menestrina, La Pregiudiziale nel processo civile, 119; Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, 110, 342, 352, 359).

La fonte normativa della condotta da tenere in considerazione è, in tutta evidenza, l’art. 34 del codice di rito, il quale, nel disciplinare il trattamento di alcuni accertamenti incidentali, introduce nell’ordinamento processuale il generale principio segnalato dalla dottrina. L’affermazione svolta dal Tribunale di Roma sopra virgolettata è, dunque, giuridicamente non condivisibile e contrasta con la quotidiana prassi giudiziale, ove i magistrati, del tutto correttamente, nell’esercizio dei loro poteri di accertamento incidentale, disapplicano finanche i provvedimenti dell’autorità amministrativa che, per loro natura, sono addirittura assistiti da presunzione di legittimità.

Dimostrato, dunque, che il giudice non solo non possa sottrarsi all’accertamento incidentale ma, anzi, debba eseguirlo, occorre ora stabilire il quomodo.

La questione della presunta assenza o della presunta perdita della legittimazione attiva della parte attrice è, in senso logico, una pregiudiziale nell’iter decisorio, mentre in senso giuridico, è un’eccezione, con la conseguenza che è compito ordinario del giudice, stabilire se esistano fatti modificativi, estintivi o impeditivi in grado di bloccare le pretese attoree. Quando la parte convenuta esercita un’eccezione, non occorrono altre particolari sollecitazioni al giudice per esaminarla, dovendo il magistrato delibarla, per il solo fatto che sia stata proposta da una parte, nell’esercizio dei propri poteri processuali. Logica ed esperienza comune insegnano come questo compito debba essere svolto: in primo luogo, saranno eseguiti quegli accertamenti minimi sui quali ci si è sopra soffermati (esistenza del documento e delle caratteristiche formali invocate dalla convenuta), in secondo luogo, occorrerà verificare se l’eccezione porti con sé il crisma della legalità, nel senso che l’evento, nel nostro caso impeditivo, contrapposto alla pretesa degli attori, sia conforme alla legge e al diritto. La natura di quest’analisi, com’è facile ammettere, è immanente in ogni accertamento giurisdizionale, in qualunque modo, in qualunque tempo e da qualunque giudice sia eseguito, con la conseguenza che dovranno essere respinte quelle eccezioni, dalle quali emerga chiara la violazione del diritto.

 

Così, se un lavoratore convenisse in giudizio il proprio datore di lavoro per ottenere il diritto al pagamento degli stipendi, il giudice non potrebbe certo respingere la domanda, accogliendo l’eccezione della convenuta, fondata su una dichiarazione che nulla è dovuto al prestatore d’opera, per la rinuncia preventiva alla retribuzione. Se il giudice dovesse accertare che la pretesa di pagamento di un attore fosse contrastata dal convenuto in dipendenza di una quietanza, nella quale si è dato atto della rinuncia al credito, sotto minaccia di lesioni personali al creditore, il giudice non potrebbe certo accogliere l’efficacia di questo fatto estintivo, specie se il predetto atto, sia oggetto di altro giudizio di annullamento. Se, per finire, il giudice dovesse accertare la perdita di legittimazione attiva di parte attrice, per un sopravvenuto provvedimento di espulsione comminato dalla convenuta a cagione del colore della pelle dell’associato estromesso, non potrebbe certo valorizzarlo come elemento impeditivo della pretesa dell’istante. Compito del magistrato chiamato a vagliare un’eccezione è, infatti, sempre quello di verificare che i fatti modificativi, impeditivi ed estintivi siano conformi alla legge, diversamente, tra i mezzi di estinzione delle obbligazioni, sarebbe ricompreso anche il fatto illecito del debitore, la qual cosa non può proprio essere.

Applicate queste regole al caso in esame, il Tribunale avrebbe dovuto vagliare, in via incidentale, la questione pregiudiziale della loro validità, peraltro, tenendo in considerazione cosa fosse accaduto nel caso in esame, e misurarsi con l’istituto dell’abuso del diritto, solo che si fosse considerato: che i provvedimenti espulsivi erano stati emessi nel febbraio 2018, una settimana prima che fosse discussa l’istanza cautelare degli attori e che ha portato il Tribunale di Roma a disattenderla, per la perdita della legittimazione attiva; che queste espulsioni erano state sospese in via cautelare nell’ottobre 2018, con dichiarazione d’illegittimità dei provvedimenti del febbraio 2018; che poco prima della nuova discussione sulla sospensione erano stati emessi nuovi provvedimenti espulsivi.

4) Il superamento del precedente orientamento

La stessa sezione del Tribunale di Roma (rectius: lo stesso magistrato redattore del pronunciamento in esame), di fronte alle eccezioni di:

“… difetto di legittimazione attiva originario, poiché al momento della notifica dell’atto di citazione nessuno degli attori aveva più lo status di consigliere, essendo stata formalizzata la loro decadenza tra il 14 e il 20 febbraio 2015 e non avendo gli stessi impugnato tali provvedimenti in via autonoma;
… difetto di legittimazione attiva sopravvenuto degli attori, atteso che gli stessi medio tempore erano stati espulsi dal sindacato e molti avevano dato vita ad una nuova associazione sindacale …”

aveva così statuito (ordinanza 6 agosto 2015):

“… Anche le eccezioni di inammissibilità del ricorso per difetto di legittimazione attiva originaria e sopravvenuta e per difetto di interesse ad agire non sono fondate. Parte convenuta sottolinea che gli attori e gli intervenuti, allo stato, non sono né componenti del Consiglio Nazionale, per essere stati dichiarati decaduti da tale carica, né associati UGL, per essere stati espulsi con provvedimenti adottati nelle more del presente giudizio. L’affermazione della convenuta secondo la quale gli attori non avrebbero legittimazione attiva originaria, per non aver impugnato i provvedimenti di decadenza in via autonoma e non aver sanato tale condizione, è priva di pregio. Il primo provvedimento impugnato dagli attori in ordine logico è proprio quello che dichiara la decadenza degli stessi dalla carica di consiglieri, delibera che viene ritenuta illegittima per l’insussistenza delle disposizioni regolamentari ivi richiamate, con conseguente rivendicazione di tale qualifica come tuttora in essere. Sulla base di quanto affermato nell’atto introduttivo (illegittimità e invalidità della delibera che ha disposto la decadenza degli attori dal Consiglio Nazionale), vi è quindi corrispondenza tra le persone degli attori e coloro che nella domanda sono indicati quali titolari del diritto fatto valere (diritto ad essere tuttora riconosciuti quali componenti del Consiglio Nazionale per effetto dell’annullamento della delibera impugnata). Quanto al difetto di legittimazione attiva sopravvenuta, per essere stati molti tra gli attori e gli intervenuti espulsi con successivi provvedimenti della Segreteria Generale, occorre osservare quanto segue. È bensì vero che l’art. 23 c.c. attribuisce il potere di impugnare le deliberazioni dell’assemblea agli organi dell’ente, agli associati e al pubblico ministero. La giurisprudenza della Suprema Corte ha tuttavia chiarito che: “la legittimazione ad impugnare le deliberazioni assembleari di organismi con struttura associativa è subordinata alla titolarità della qualità di socio, attuale o almeno sussistente all’epoca della deliberazione stessa, sempre che, in tale ultimo caso, dall’ex socio si faccia valere in giudizio un diritto attuale che risulti leso dall’atto impugnato” (Sez. 1, Sentenza n. 952 del 26/01/1993, Rv. 480457; Sez. 1, Sentenza n. 181 del 13/01/1988, Rv. 456798). Nel caso di specie, gli attori hanno agito quando erano ancora associati e non era intervenuto alcun provvedimento di espulsione. I diritti che gli stessi intendono far valere si innestano in un complesso contenzioso che vede fronteggiarsi diverse correnti all’interno dell’associazione sindacale convenuta. Nell’ambito di detto contenzioso, gli attori mirano a recuperare i propri incarichi e la propria posizione all’interno degli organi assembleari, anche al fine di continuare ad interagire con la corrente avversa nel confronto finalizzato all’elezione dell’organo di governo. Ove l’illegittimità della decadenza dichiarata con le deliberazioni impugnate dovesse essere accertata, ne deriverebbero conseguenze potenzialmente invalidanti con riferimento a diversi ulteriori atti posti in essere dal Consiglio Nazionale senza la partecipazione dei consiglieri dichiarati decaduti, compresa l’elezione del Segretario Generale. È chiaro, quindi, l’interesse degli attori ad agire nel presente giudizio: ottenere una pronuncia che costituisca la base delle ulteriori impugnative in corso o ancora da proporre in relazione agli atti posti in essere successivamente e consequenzialmente collegati alle delibere impugnate. Occorre infine osservare che gli attori potrebbero ancora impugnare i citati provvedimenti di esclusione,

non essendo ancora decorso il termine semestrale di cui all’art. 24 c.c. A ben vedere, infine, solo alcuni tra gli attori risultano essere stati colpiti da provvedimenti di espulsione, mentre molti mantengono tuttora la qualifica di associato. Le eccezioni preliminari formulate da parte convenuta sotto questo profilo non sono quindi accoglibili.”

5) Conclusioni

Il pronunciamento in commento non può, dunque, condividersi non tanto e non solo per il contrasto con il dovere d’eseguire gli accertamenti incidentali nei termini indicati dalla dottrina, non tanto e non solo perché si sia posta in contrasto con diverso orientamento della giurisprudenza di legittimità, quanto per la palpabile e materica ingiustizia della decisione, che, peraltro e come dimostrato, apre una vera e propria autostrada all’abuso del diritto.

Gennaio 2020

Roberto Mattioni avvocato del foro di Milano

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