Nell’aprile 1856, le otto ore appena conquistate da alcune categorie operaie a Melbourne vennero rivendicate dai lavoratori in sciopero per l’intero paese. Gli slogan su drappi e stendardi dicevano: «8 ore di lavoro — 8 ore di ricreazione — 8 ore di riposo».
Le tre rivendicazioni che vennero dette dei «tre otto».
Negli Stati Uniti, l’agitazione per le otto ore fu rallentata allora dalle ripetute crisi economiche, dall’immigrazione di masse di irlandesi poveri e affamati e infine dallo scoppio della guerra civile nel 1861. La guerra ebbe un effetto acceleratore sull’industria e al termine del conflitto la «questione delle otto ore» si ripresentò più pressante sulla scena industriale e politica statunitense.
Ira Steward, un meccanico di Boston, organizzò nel 1865 la Lega per le otto ore del Massachusetts, cui fecero immediatamente seguito decine di altre organizzazioni analoghe in tutte le aree industrializzate del paese. Nel 1866, si formava la National Labor Union, il primo tentativo postbellico di costituire una centrale sindacale nazionale e il primo veicolo per la diffusione in tutto il paese della rivendicazione delle otto ore.
La «giornata corta» fu l’obiettivo principale indicato nel programma: «La prima e grande necessità d’oggi, la liberazione del lavoro di questo paese dalla schiavitù del capitale, è l’approvazione di una legge in base alla quale otto ore devono essere la giornata lavorativa normale in tutti gli stati dell’Unione americana. Noi siamo decisi a impiegare tutte le nostre energie perché questo obiettivo glorioso venga raggiunto».
Un mese più tardi, la Prima Internazionale riunita in congresso a Ginevra si esprimeva in termini simili: «La riduzione legale delle ore di lavoro è il requisito preliminare di ogni miglioramento della condizione operaia e della sua definitiva emancipazione. Noi proponiamo otto ore di lavoro come limite legale della giornata lavorativa. La riduzione della giornata lavorativa viene adesso generalmente richiesta dai lavoratori americani; noi la chiediamo per i lavoratori di tutto il mondo».
Il «connubio» tra la lotta per le otto ore e il primo giorno di maggio avvenne a Chicago nel 1867.
In quella occasione più di diecimila lavoratori sfilarono in quello che il Chicago Times definì «il corteo più grande che si sia mai visto a Chicago». Perché proprio quella data? Le ragioni furono diverse. La più immediata: lo stato dell’Illinois aveva approvato la legge sulle otto ore nel marzo 1867, disponendo la sua entrata in vigore per il primo maggio.
Già prima di quella data era apparso chiaro che molti padroni non erano intenzionati a rispettare la legge; la manifestazione doveva dimostrare che i lavoratori non erano disposti ad accettare l’illegalità padronale. Ma prima ancora, perché l’entrata in vigore di quella legge (e di altre, contemporanee, negli stati di New York e del Connecticut) era stata fissata proprio al primo maggio?
Alcune motivazioni vanno ricercate nell’ambito delle consuetudini legate al mondo popolare e del lavoro. All’inizio di maggio riprendeva il lavoro nell’edilizia, ricorda lo storico William Adelman, e i contratti di lavoro venivano rinnovati allora. Anche i contratti d’affitto, ricorda a sua volta Maurice Dommanget, scadevano il primo maggio e la gente faceva allora i suoi traslochi. Anche in agricoltura quei giorni erano di stasi, dopo le semine primaverili.
Alle tradizioni del mondo agricolo si possono collegare infine le ultime probabili ragioni, le più profonde e forse meno dimostrabili ma certo tra le più vive, sottese anche alle «scadenze» consuetudinarie appena ricordate. In tutte le tradizioni nordiche, come ricordano studiosi del folklore e delle religioni e delle tradizioni popolari (da James Frazer a Vladimir Propp, da Mircea Eliade ad Alfonso Di Nola), l’inizio di maggio era l’inizio della primavera, la data simbolica del rinnovamento della vita sulla terra. E non v’è dubbio che nella rivendicazione operaia delle otto ore fosse esplicita un’intenzione di rinnovamento generale della vita operaia e, attraverso essa, della vita degli uomini di tutto il mondo.
Se l’insieme di queste motivazioni, immediate e remote, confluì nel «primo» primo maggio del 1867, esse rifluirono nuovamente attraverso il movimento dei lavoratori che ridiede slancio alla rivendicazione delle otto ore anni più tardi. Gli operai del ’67 infatti furono sconfitti dalla rigidità padronale e dal disinteresse degli stati a far rispettare le leggi. Poi, per quasi tutti gli anni Settanta, anche la crisi economica aveva indebolito la forza operaia e sindacale.
All’inizio del decennio successivo una piccola confederazione sindacale nata nel 1881, la Federation of Organized Trade and Labor Unions (FOTLU), riprese l’agitazione. Nel 1884 si fece promotrice di un movimento nazionale tendente a imporre le otto ore al padronato statunitense.
Nel lanciare la sua campagna, la FOTLU propose a tutte le forse operaie di unirsi per far sì che le otto ore costituissero «la giornata lavorativa a partire dal primo maggio 1886». Per quella data fu convocato uno sciopero generale operaio in tutte le maggiori città statunitensi. La data del primo maggio era stata proposta al congresso della FOTLU dal carpentiere di Chicago G. Edmonston, per stabilire un richiamo esplicito e una continuità con il 1867.
1° maggio 1886: scade l’ultimatum dettato dalla Federation Trade and Labor Unions e vengono proclamati i primi scioperi a oltranza per chiedere di sancire contrattualmente l’orario lavorativo di otto ore.
In dodicimila fabbriche degli Stati Uniti 400mila lavoratori incrociano le braccia.
A Chicago scoppiano disordini, la polizia spara sui dimostranti, che manifestano contro i licenziamenti punitivi, e uccide quattro scioperanti. Nella manifestazione di protesta scoppia una bomba e ci sono altri morti.
Risulta facile condannare a morte otto esponenti anarchici come capro espiatorio dell’attentato.
Disordini si verificano anche a Milwaukee dove periscono nove operai polacchi.
Sulle organizzazioni sindacali si abbatte una feroce ondata repressiva, con sedi devastate e dirigenti arrestati.
Il 1 maggio 1898 coincide con la fase più acuta dei moti per il pane”, che investono tutta Italia. Quel giorno si hanno 3 morti a Minervino. Manifestazioni a Firenze e a Sesto Fiorentino, dove la polizia spara alla schiena dei lavoratori in fuga provocando 5 morti e 10 feriti e a Milano dove i militari, comandati dal generale Bava Beccaris, reprimono la rivolta sparando sui manifestanti con fucili e cannoni.
La carestia provoca il notevole aumento del prezzo del grano e, conseguentemente, di quello del pane, a cui si aggiunge la diminuzione dei salari del proletariato, sul quale è stato in gran parte fatto ricadere il peso della grave crisi economica che travaglia la nazione: basti pensare che nella Milano del ‘98 un operaio guadagnava 18 centesimi all’ora, e per acquistare un chilo di pane ne occorrono 40.
Da ciò il diffuso malcontento popolare che, pilotato dalle Sinistre per la prima volta alleate, sfocerà nell’imponente manifestazione di protesta del 6 maggio. La rivolta dei poveri, come qualcuno la chiamerà, dura quattro giorni, dal 6 al 9 maggio, e vede schierati 40 mila dimostranti, armati soprattutto di fame, contro 20 mila militari in assetto di guerra, sotto il comando di Fiorenzo Bava Beccaris, il ferreo generale nominato Regio Commissario con pieni poteri.
Barricate verso via Volta e Porta Garibaldi
I primi scontri avvengono nel pomeriggio di venerdì 6: la truppa spara contro gli operai che assediano la caserma del Trotter, e alcuni morti restano sul terreno. Il giorno seguente, 7 maggio, viene proclamato lo sciopero generale. Dall’altra parte si risponde con lo stato d’assedio: è la guerra civile. Dai tetti, dalle finestre i dimostranti lanciano tegole e mattoni contro i militari che avanzano sparando: le strade, disselciate per ricavarne proiettili, si tingono di sangue. I tram vengono fatti deragliare e posti di traverso per fiaccare l’impeto della cavalleria e le cariche dei bersaglieri.
A Porta Venezia, Vittoria, Romana, Ticinese e Garibaldi vengono erette, come nel ‘48 contro gli Austriaci, le barricate mentre, lungo i Bastioni, volteggiano gli squadroni della cavalleria a sciabole sguainate. Ovunque l’aria è lacerata dalle scariche di fucileria, cui fa eco il rombo dei cannoni attestati a Porta Genova, a S. Eustorgio, al Castello. Così trascorre anche la terza di quelle che saranno dette le Quattro Giornate del ‘98.
Né lo scenario muta il giorno 9, che cade di lunedì e registra un odioso episodio di cui si rende responsabile la truppa.
All’inizio del viale Monforte in seguito ribattezzato viale Piave sorge un convento di Cappuccini che ha ereditato la fama di carità dello scomparso e omonimo cenobio di Porta Orientale celebrato dal Manzoni. All’alba, un militare appostato col binocolo scambia per rivoltosi dei mendicanti che attendono presso la porta del convento la quotidiana razione di minestra, e lancia l’allarme.
In breve una batteria di cannoni viene distaccata sui prospicienti Bastioni (ora viale Majno). Partono alcuni colpi che aprono una breccia nel muro di protezione e, attraverso di essa, irrompono i fanti con le baionette innescate. Il convento è meticolosamente ispezionato alla vana ricerca di armi, poi frati e “barboni” vengono allineati e minacciati di fucilazione.
Bilancio dell’”impresa”: due mendicanti uccisi e una decina feriti. Inutili le proteste dei Padri che, anzi, sono tradotti, fra due ali di truppa schierata, in Prefettura. Qui subiscono un’umiliante perquisizione, e finirebbero addirittura in carcere se non fosse per alcuni illustri cittadini, capeggiati da don Achille Ratti il futuro Pio XI che garantiscono per i Cappuccini e ne ottengono così il rilascio.
I moti di Milano si concludono praticamente lo stesso giorno, verso sera, dopo che alla Foppa l’ultima barricata degli insorti è stata espugnata dai bersaglieri. Dalla Prefettura il Bava Beccaris può così finalmente telegrafare a Roma che la rivolta è stata soffocata.
1° maggio 1947: a Portella della Ginestra, nel Palermitano, circa 2000 contadini siciliani, donne, uomini, bambini, anziani si riuniscono per manifestare.
Dopo secoli di sottomissione a un potere feudale, finalmente stanno riuscendo a conquistare il diritto alla proprietà della terra, per far fruttare i latifondi incolti.
Le recenti vittorie elettorali danno ragione ai lavoratori, ma i latifondisti reazionari armano la banda di Salvatore Giuliano.
Dalle colline che dominano la piana di Portella, aprono il fuoco le mitragliatrici degli uomini di Giuliano: il bilancio è di 11 morti e più di 50 feriti.
L’ambiguità del ministro dell’interno Mario Scelba esclude in partenza la pista della strage politica.
Come per gli anarchici statunitensi, torna comodo accusare soltanto Giuliano, senza indagare eventuali collusioni mafiose e manovre occulte dei latifondisti.
Quelle citate sono alcune pagine insanguinate nella storia del 1° maggio, Giornata dei Lavoratori.
Proprio la vicenda dei “martiri di Chicago” portò a considerare il 1° maggio una giornata nella quale il lavoro si ferma e i lavoratori manifestano per i propri diritti: “Otto ore di lavoro, otto di svago, otto per dormire”.
La prima celebrazione della Festa del Lavoro si ebbe nel 1890, in Italia nel ‘91, però con scontri, morti e feriti.
A distanza di un secolo, nel 1990, la situazione risulta radicalmente cambiata e anche il Presidente della Repubblica prende parte alla celebrazione di Milano.
È da ricordare che durante il ventennio fascista la Festa del Lavoro venne abolita, in quanto manifestazione operaia, quindi politicamente rossa.
Ciò spiega perché specialmente nel dopoguerra, per reazione, il 1° maggio risultava caricato di connotazioni di sinistra e tensioni politiche.
Oggi il lavoratore non si identifica più unicamente con l’operaio e il contadino, il senso di parte sociale della Festa del Lavoro resta, ma da alcuni anni le organizzazioni sindacali, si impegnano perché il Primo Maggio sia giornata di Festa, caratterizzata da imponenti concerti nelle maggiori piazze d’Italia.