SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE IV PENALE
Sentenza 2 febbraio – 11 marzo 2011, n. 9926
Osserva
I) I fatti e i giudizi di merito.
La Corte d’Appello di Catania, con sentenza 29 marzo 2010, ha confermato – respingendo gli appelli proposti dall’imputato e dalle parti civili – la sentenza 27 marzo 2008 del Tribunale di Catania che aveva condannato R.A. , previa concessione delle attenuanti generiche, alla pena di mesi quattro di reclusione per il delitto di omicidio colposo in danno di F.C.R. deceduto in (OMISSIS) per le conseguenze di un incidente verificatosi il giorno precedente durante lo svolgimento di una tradizionale manifestazione religiosa che si svolge ogni anno, in onore di Sant’Agata, nella città di Catania nell’arco di tre giorni e che attira migliaia di fedeli e altre persone interessate.
Le reliquie della santa vengono trasportate su una specie di carro denominato “fercolo” (in dialetto locale “vara”) che è trainato a mano da numerose persone che si servono di due grossi cavi agganciati ai fianchi del carro seguito e preceduto da numerosissimi fedeli. Il carro è molto pesante (da 19 a 21 tonnellate) e lungo il percorso si crea un corridoio tra le corde che tirano il fercolo dai due lati; all’interno di questo corridoio si vengono a trovare molte persone che devono seguire l’andamento del fercolo per non essere travolte dal medesimo.
Il giorno indicato è avvenuto che, giunto il fercolo all’inizio della salita di San Giuliano, si decideva di percorrere a passo di corsa questo tratto di strada come avveniva tradizionalmente; dopo l’inizio della salita a passo di corsa alcune decine di persone che seguivano la processione all’interno del corridoio creatosi tra le corde di traino, cadevano al suolo e F.C.R. – anch’egli caduto al suolo – veniva calpestato da numerose persone subendo gravi lesioni che ne cagionavano la morte avvenuta il giorno successivo.
I giudici di merito hanno accertato che la caduta al suolo di numerosi fedeli era conseguita alla decisione dell’imputato (che rivestiva la qualità di “maestro del fercolo”) di far percorrere di corsa la salita (OMISSIS) malgrado la presenza di numerose persone sul percorso, all’interno dei cordoni che delimitavano il percorso del trasporto della statua; e in mancanza, altresì, di persone che fossero state addette ad allontanarle dallo spazio più volte indicato.
La Corte d’appello ha ritenuto che R. , pur non essendo certo che avesse il potere di decidere il percorso da seguire (che comunque risultava essere stato da lui modificato in talune occasioni), aveva certamente quello di stabilire se la salita dovesse essere fatta al passo ovvero di corsa ed aveva lui stesso la decisione che avvenisse di corsa pur in mancanza delle condizioni minime di sicurezza, appunto per la presenza delle persone nel corridoio di cui si è detto.
E la sentenza di secondo grado ha poi ribadito che alla condotta dell’imputato, da ritenere imprudente e imperita, fosse da ricollegare il verificarsi dell’evento in entrambe le ipotesi ricostruttive ipotizzate: che la caduta della persona offesa fosse da attribuire ad un urto con il c.d. “longherone” (un asse orizzontale posto davanti al fercolo) ovvero che fosse da attribuire ai movimenti della folla che l’avevano fatto cadere al suolo per essere poi calpestato dalle persone che tentavano di fuggire.
Infine la Corte ha rigettato i motivi di appello proposti contro le statuizioni civili adottate dal primo giudice e ha condannato l’imputato alla rifusione delle spese del giudizio di appello in favore delle parti civili.
II) Il ricorso dell’imputato contro la sentenza d’appello.
Contro la sentenza della Corte catanese ha proposto ricorso l’imputato a mezzo del suo difensore.
Con il primo motivo si deduce il vizio di motivazione contenuto nella sentenza impugnata con riferimento: 1) alla ritenuta esistenza, in capo all’imputato, di obblighi di garanzia non gravando su di lui alcun potere inerente alla scelta del percorso e alle modalità di svolgimento della processione; 2) alla gestione all’ordine pubblico; 3) alla manutenzione del fercolo e del suo impianto frenante.
Si riportano nel ricorso le deposizioni e i documenti da cui emerge, secondo il ricorrente, che la salita (OMISSIS) era stata sempre percorsa e mai al passo e che comunque eventuali decisioni di modificare le modalità non competevano a R. bensì al Comitato per i festeggiamenti agatini (composto da sindaco, arcivescovo e cerimoniere) come risulta anche, in tempi più recenti, dal verbale di collaudo del fercolo eseguito il 3 febbraio 2010.
I giudici di appello non avrebbero poi tenuto conto della circostanza che la decisione – presa negli anni successivi a quello dell’incidente – di percorrere al passo la salita (OMISSIS) , era dovuta a ragioni contingenti o straordinarie (per es. le avverse condizioni atmosferiche) ma soprattutto non avrebbero considerato che solo nel 2010 le autorità comunali avevano stabilito che le caratteristiche dell’impianto frenante del fercolo non erano compatibili con la percorrenza di corsa della parte di percorso in salita (non solo la salita (OMISSIS) ma anche quella dei (OMISSIS) ).
Del resto da un ordine di servizio della Questura di Catania, del 28 gennaio 2004, risulterebbe in modo inequivocabile che l’intera gestione dell’ordine pubblico era stata rimessa, in ogni tratto del percorso, alle forze dell’ordine che peraltro non erano riuscite a contenere le intemperanze dei presenti come emergerebbe anche dalle riprese televisive all’epoca effettuate.
Né la sentenza impugnata avrebbe esaminato i motivi di appello concernenti sia l’inattendibilità delle dichiarazioni del teste B. (che asseriva di aver raccomandato a R. di prestare attenzione prima di dare il segnale di partenza per la salita di (OMISSIS) ) che la ripartizione di competenze sullo svolgimento della salita che spettavano esclusivamente a Comune, Arcidiocesi e Questura. Del resto se la vittima non aveva partecipato alla processione la responsabilità relativa alla tutela della sua incolumità non poteva che gravare sulle forze dell’ordine.
Infine si sottolinea nel motivo di ricorso che la Corte non ha fornito alcuna risposta alla censura proposta con i motivi di appello concernente l’efficienza causale dell’inidoneità del sistema frenante (non addebitabile a R. ) sul verificarsi dell’incidente.
Con il secondo motivo si deduce il vizio di motivazione con riferimento alla possibilità di sussumere il caso nell’ambito del c.d. rischio consentito. Dopo aver premesso cenni sugli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali che si sono formati su tale istituto il ricorrente sottolinea come, nel caso in esame, l’importantissimo valore religioso e culturale della manifestazione giustificasse “la pericolosità intrinseca di esternazioni votive tipiche, quali il trasporto di pesanti ceri accesi in mezzo ai cordoni di traino, e lo svolgimento in corsa delle emozionanti salite…”.
Si rileva poi, nel motivo di ricorso, come sia priva di fondamento l’affermazione del primo giudice di richiedere che le attività pericolose, per avere rilievo ai fini che interessano, debbano svolgersi in un preciso contesto normativo essendo sufficiente che non vengano superati i limiti segnati dai criteri dell’adeguatezza sociale e della tolleranza sociale; limiti non superati, nel caso di specie, per il valore pregnante del rispetto della tradizione che imponeva di percorrere le salite di corsa. E comunque questa decisione non è stata presa da R. .
La Corte di merito non avrebbe poi considerato che l’incarico al cerimoniere di organizzare le celebrazioni per l’anno 2004 davano per scontato che le salite si sarebbero dovute percorrere di corsa per il richiamo alla tradizione.
Si sottolinea ancora, nel motivo, che i giudici di merito avrebbero scorrettamente applicato al caso del rischio consentito un concetto di prevedibilità dell’evento estraneo a questa ipotesi – proprio perché in tali ipotesi “la prevedibilità del pericolo è sempre certa” – giungendo quindi a disconoscere la stessa esistenza di casi di rischio consentito. E avrebbero inoltre previsto che il giudice, in questi casi, avrebbe illegittimamente preteso l’osservanza in grado più elevato di regole cautelari; compito che può riguardare soltanto il legislatore e che si pone, se effettuato dal giudice, in contrasto con il principio di determinatezza.
La Corte di merito, secondo il ricorrente, avrebbe attribuito a R. il compito di creare la regola cautelare del caso specifico; e comunque nel tempo le regole cautelari, ad opera di R. , erano divenute sempre più rigorose. E questo inasprimento delle cautele aveva condotto al risultato che, nel 2004, il numero delle persone presenti all’interno del corridoio tra le funi era inferiore a quello degli anni precedenti e comunque l’imputato aveva proceduto alle rituali “false partenze” e si erano adottate ulteriori cautele per evitare che il fercolo urtasse contro le persone.
Carente sarebbe quindi la motivazione della sentenza impugnata laddove ritiene accertato che non esistevano le condizioni per la partenza sicura della salita. Contraddittoria sarebbe, in particolare, la motivazione laddove ha ritenuto inattendibili i testi indicati dalla difesa perché potenziali corresponsabili del fatto mentre avrebbe attribuito credibilità a chi coindagato lo era effettivamente (B. ) mentre la ricostruzione, fornita da testi ritenuti attendibili, secondo cui la ripartenza era avvenuta quando una delle corde non era in tensione, contrasterebbe con ovvie regole di esperienza.
Con il terzo motivo di ricorso si deduce il vizio di “carenza e insufficienza di motivazione…………in relazione alla velocità di percorrenza del fercolo nel punto in cui si è verificato l’incidente”. La Corte non avrebbe tenuto conto della circostanza, da ritenere provata, che l’incidente era avvenuto quando il fercolo era ancora sotto frenatura ed avrebbe erroneamente ritenuto che la circostanza non fosse stata proposta con i motivi di appello.
Con il quarto motivo si deduce il medesimo vizio con riferimento ai criteri utilizzati per la liquidazione dei danni, da parte del giudice di primo grado, con sentenza confermata in appello. Si afferma, nel motivo di ricorso, che i giudici di merito – oltre a ritenere esistente il concorso di colpa della persona offesa quantificato nel 50 % dal primo giudice e confermato da quello di appello – avrebbe dovuto tener conto delle rilevanti condotte colpose degli altri soggetti che hanno concausato l’evento (in particolare dei dipendenti di Comune e Questura) per le evidenti carenze nel servizio d’ordine; carenze, peraltro, ampiamente riconosciute dai giudici di merito.
Erronea sarebbe la tesi proposta dal giudice di appello, secondo cui la solidarietà di natura civilistica con eventuali terzi responsabili non avrebbe influenza sul risarcimento dei danni perché “la solidarietà delle obbligazioni civilistiche, infatti, incide soltanto ed esclusivamente sulle modalità di escussione del credito e sull’eventuale diritto di rivalsa e non sulla quantificazione del danno”.
Inoltre il Tribunale, con decisione confermata dalla Corte d’Appello, avrebbe immotivatamente liquidato il danno con l’applicazione dei massimi previsti dalle tabelle di liquidazione dei danni senza che venisse fornita alcuna giustificazione di questa scelta e senza che le parti civili avessero fornito alcun elemento obiettivo idoneo a fondare la quantificazione del danno e la risarcibilità di danni non patrimoniali per i quali non può valere la semplice presunzione (per es. il danno esistenziale deve essere provato). Erronea sarebbe poi l’utilizzazione delle tabelle per la liquidazione del danno esistenziale; tabelle utilizzabili esclusivamente per la determinazione del danno biologico.
Con il quinto motivo si deducono la violazione dell’art. 2056 cod. civ., nonché il vizio di motivazione, sulla esistenza e sulla quantificazione, ritenuta eccessiva, delle somme liquidate alle parti civili a titolo di danno patrimoniale in mancanza di alcuna prova dell’esistenza di tali danni ed in particolare dello svolgimento di un’attività lavorativa da parte del defunto; prova neppure dedotta, dalle medesime parti, sull’esistenza e sull’entità del danno subito non essendo legittimo il ricorso alle presunzioni consentito solo per alcune categorie di danno.
Il ricorrente ha poi depositato note difensive e motivi nuovi assumendo anzitutto come la sentenza impugnata, pur non prendendo posizione sul problema del c.d. “rischio consentito”, è pervenuta a risultati in parte corrispondenti a quelli sostenuti dalla difesa dell’imputato individuando le regole cautelari che sarebbe stato necessario seguire; regole cautelari corrispondenti proprio a quelle che R. aveva imposto di osservare.
Si ribadiscono poi le censure, già contenute nel ricorso, riguardanti l’attendibilità dei testimoni e si ribadisce la valutazione di impossibilità che il fercolo fosse stato messo in movimento senza che i cavi fossero in tensione essendo, questa ipotesi, in contrasto con regole di esperienza indiscutibili e si sottolinea ancora che la Corte di merito non avrebbe considerato che esistevano tutte le condizioni ottimali per la partenza del carro.
III) I ricorsi delle parti civili.
Contro la sentenza della Corte catanese hanno proposto ricorso, in ordine alle statuizioni civili, anche i difensori delle parti civili.
C.R.A. , in proprio e quale esercente la potestà sui figli minori F.C.F. e FE.CA.FR. , censura la sentenza impugnata in particolare per quanto riguarda il concorso di colpa del 50 % riconosciuto in capo alla vittima. Questi non aveva infatti accettato alcun rischio e ben poteva confidare che gli organi preposti alla tutela della sicurezza proteggessero adeguatamente i partecipanti che non potevano prevedere l’esistenza di alcun rischio a loro carico. F.C.R. non poteva non fare affidamento sulla circostanza che il via sarebbe stato dato solo nel momento in cui si fossero realizzate le condizioni di sicurezza.
La sentenza impugnata sarebbe inoltre priva di motivazione sulla percentuale di colpa ritenuta e non avrebbero poi considerato, i giudici di merito, che il concorso di colpa può essere ravvisato solo nel caso in cui la condotta sia stata concausa dell’evento; il che, nella fattispecie, non poteva ritenersi avvenuto.
Le parti civili F.C.C. , F.C.A. e N.V.R. deducono anch’esse i vizi di violazione di legge e di motivazione con riferimento al riconosciuto concorso di colpa.
Ricordano i ricorrenti, con il primo motivo, che le sentenze di merito hanno riconosciuto che in capo a R. esisteva una posizione di garanzia e che non può essere considerato concorrente, nella causazione dell’evento, chi è destinatario della garanzia. Del resto i giudici di merito non hanno individuato quale regola cautelare sia stata violata dalla vittima; si sottolinea poi nel ricorso che alcun potere impeditivo dell’evento esisteva in capo ai fedeli e alle altre persone presenti fermo restando che il pericolo non era assolutamente prevedibile.
Con il secondo motivo si deduce il vizio di motivazione con riferimento alla quantificazione nel 50 % del concorso di colpa senza che sia stata in alcun modo giustificata questa quantificazione.
IV) L’esame dei motivi del ricorso dell’imputato.
Premessa.
Il ricorso dell’imputato è infondato e deve conseguentemente essere rigettato.
All’esame dei motivi dell’imputato vanno però premesse alcune considerazione introduttive. Il ricorso è formulato con un continuo richiamo al contenuto di motivi di appello e alla risposta che la sentenza impugnata avrebbe dato – o avrebbe omesso di dare – sui punti proposti.
Effettivamente la sentenza impugnata non ha fornito una risposta specifica a tutte le censure contenute nei motivi di appello ma ha affrontato globalmente i vari temi proposti con l’impugnazione risolvendo, come si dirà più avanti, tutti i temi decisivi oggetto del ricorso.
Riservando dunque l’esame di alcuni dei motivi di ricorso ai temi specifici che saranno di seguito affrontati in modo più ampio va peraltro preliminarmente rilevato che, per alcune delle censure proposte, va ritenuta fin d’ora l’inammissibilità sia perché si tratta di doglianze che non presentano alcuna decisività ai fini del decidere sia perché riguardano valutazioni di merito compiute in modo non illogico dal giudice d’appello.
In particolare sono prive di decisività le censure riguardanti l’esistenza e l’ambito della posizione di garanzia che si assume gravasse sull’imputato; come si vedrà più ampiamente in seguito la causalità, nel caso di specie, ha carattere commissivo ed è dunque irrilevante accertare l’ambito della posizione di garanzia che indubbiamente gravava sull’imputato.
Lo stesso deve dirsi per quanto riguarda la corresponsabilità (che entrambe le sentenze di merito riconoscono) di coloro che avevano la gestione dell’ordine pubblico e che, nella situazione descritta, non hanno impedito che il carro si riavviasse in una situazione di evidente pericolo. L’eventuale concorso – o cooperazione colposa – di terzi non vale certamente ad escludere la responsabilità dell’imputato trattandosi di condotte preesistenti alla condotta attiva dell’imputato e non avendo comunque quel carattere di eccezionalità che potrebbe valere a far ritenere applicabile il disposto dell’art. 41 comma 2 cod. pen..
Analoghe considerazioni vanno svolte in relazione alle caratteristiche dell’impianto frenante e alla sua inadeguatezza che, semmai, costituisce circostanza che aggrava la responsabilità dell’imputato essendo obbligo del maestro del fercolo quello di accertare l’efficienza del sistema frenante del “veicolo” alla cui conduzione era preposto. Così come irrilevanti devono ritenersi le modalità di percorrenza della salita San Giuliano adottate negli anni antecedenti e successivi a quel tragico 2004 come si preciserà di seguito.
Incensurabili infine sono le censure che riguardano l’attendibilità dei testimoni sulle modalità dell’incidente ed in particolare di quelli che hanno deposto su avvertimenti di pericolo che sarebbero stati dati a R. (teste B. ) e di quelli che hanno assistito all’incidente mentre si trovavano sui balconi e alle finestre di un edificio prospiciente il luogo dell’incidente e proprio per questa circostanza sono stati ritenuti – con un ragionamento esente da alcuna illogicità -maggiormente attendibili, da un punto di vista oggettivo, rispetto a coloro che si trovavano in mezzo alle persone coinvolte nell’evento.
E lo stesso deve dirsi per quanto riguarda le censure riguardanti la circostanza se entrambi i cavi fossero in tensione al momento della partenza del fercolo anch’esse dirette ad un accertamento in fatto che non compete al giudice di legittimità e che comunque cozza con la circostanza – incensurabilmente accertata dai giudici di merito – che comunque il mezzo ebbe a mettersi in movimento appena R. diede il via.
V) La causalità.
Il tema della causalità non è direttamente proposto nei motivi di ricorso dell’imputato ma è necessario affrontarlo perché, in più parti del ricorso, si fa riferimento, per negarla, all’esistenza di una posizione di garanzia in capo a R.A. ; il che presuppone che la causalità abbia carattere omissivo perché, diversamente (se si trattasse di causalità commissiva) andrebbe solo verificato se l’evento sia riconducibile ad una condotta attiva dell’agente mentre il tema della posizione di garanzia neppure si porrebbe.
Su questo tema occorrono alcune considerazioni preliminari riguardanti la distinzione tra causalità attiva ed omissiva. Su questo problema va premesso che, in astratto, la distinzione tra causalità commissiva e causalità omissiva è del tutto chiara: nella prima viene violato un divieto nella seconda è un comando ad essere violato. Non sempre agevole è però la distinzione in concreto tra le due forme di causalità.
Questi problemi hanno avuto un’elaborazione particolarmente approfondita nel tema riguardante la responsabilità professionale medica in relazione alla quale viene frequentemente ritenuta omissiva una condotta che tale non è anche perché sono ben pochi i casi nei quali la condotta cui riferire l’evento dannoso è chiaramente attiva (il chirurgo ha inavvertitamente tagliato un vaso durante l’intervento) o passiva (il medico ha colposamente omesso di ricoverare il paziente). Nella stragrande maggioranza dei casi sono presenti condotte attive e passive che interagiscono tra di loro rendendo ancor più difficile l’accertamento della natura della causalità.
È peraltro necessario evitare la confusione tra il reato omissivo e le componenti omissive della colpa: i casi del medico che adotta una terapia errata (e quindi omette di somministrare quella corretta) o che dimette anticipatamente il paziente (e quindi omette di continuare a curarlo in ambito ospedaliero) non rientrano nella causalità omissiva ma in quella attiva.
Si è detto che i medici che hanno sbagliato diagnosi e terapia “non hanno violato un comando penale, bensì solo un divieto di cagionare (o contribuito a cagionare, si trattasse anche solo di accelerare) lesioni o morte con negligenza, imperizia o imprudenza”.
Causalità omissiva sarà dunque quella del medico che omette proprio di curare il paziente o che rifiuta di ricoverarlo. Al più potrebbe ritenersi condivisibile il più recente orientamento secondo cui, nell’ambito della responsabilità medica, avrebbe natura commissiva la condotta del medico che ha introdotto nel quadro clinico del paziente un fattore di rischio poi effettivamente concretizzatosi; sarebbe invece omissiva la condotta del sanitario che non abbia contrastato un rischio già presente nel quadro clinico del paziente.
Alla luce delle considerazioni svolte – e rapportate queste tematiche al tema che interessa – non possono esservi dubbi sulla natura commissiva della causalità nel caso in esame.
R.A. non ha infatti violato un comando omettendo di intervenire in un caso che richiedeva la sua attivazione ma ha violato il divieto di creare una situazione di estremo pericolo dando il via alla messa in movimento del fercolo a passo di corsa malgrado all’interno del corridoio sito tra i due cavi vi fossero ancora numerose persone e quindi creando il presupposto per i movimenti scomposti della folla impaurita che ha poi investito e fatto cadere la vittima provocando le gravi lesioni che ne hanno cagionato la morte (e a non diverse conclusioni si dovrebbe pervenire nel caso in cui fosse ritenuto che la vittima era caduto al suolo perché urtato dal c.d. “longherone”).
E, anche richiamando la più recente ricostruzione ricordata, può affermarsi che l’agente abbia introdotto nella situazione già critica per l’ordine pubblico un fattore di rischio poi effettivamente concretizzatosi. Si badi, non si tratta di un riferimento alla non condivisibile (e ormai ampiamente superata) teoria dell’aumento del rischio ma di una ricostruzione che tiene conto della introduzione di un fattore causale che ha certamente cagionato, o contribuito a cagionare, l’evento.
Se dunque nel caso in esame la causalità ha natura commissiva e se l’evento è da ritenere causalmente ricollegabile alla condotta dell’imputato in termini di sostanziale certezza è evidente che diviene superfluo dare risposta a tutti i quesiti che pone il ricorrente in relazione all’ampiezza dei suoi poteri in merito alla possibilità di intervenire sulle modalità e sul percorso della processione e alla corresponsabilità di altri (in particolare delle forze dell’ordine) nella gestione dell’ordine pubblico.
R. , quale “maestro del fercolo” e quindi responsabile della sua conduzione, ha dato il via al percorso in salita di corsa così ponendo in essere la condotta attiva che ha cagionato l’evento essendo indubbio che è stata la messa in movimento del pesante mezzo trainato in corsa che ha spaventato le persone che si trovavano all’interno del corridoio e che hanno travolto F.C.R.
Che a R. competesse di dare il via al percorso in salita e che di fatto sia stato lui, in quel tragico 6 febbraio 2004, a dare il via al percorso di corsa in salita non è contestato neppure dallo stesso imputato come riferito nella sentenza di primo grado che riporta ampi stralci della sue dichiarazioni (p. 29 ss.).
Ineccepibile deve dunque ritenersi sul punto la motivazione della sentenza impugnata laddove afferma (a p. 13) “che il capo fercolo R. , nella situazione contingente del momento (…………caratterizzata da eccessiva presenza di persone – non addette al traino del fercolo – tra i cordoni, a distanza dal fercolo certamente inferiore a quella di sicurezza) avrebbe dovuto……… – non riuscendo né i capi maniglia né le forze dell’ordine a far sgombrare il pubblico (fedeli non addetti al traino del fercolo, cittadini seguaci della tradizione, spettatori, curiosi, turisti, ecc., ecc.) dallo spazio tra i cordoni sino a ricondurre la situazione entro i limiti di sicurezza – o aspettare ulteriormente che l’opera di sgombero sortisse effetto, ovvero disporre che la salita venisse avviata al passo”.
Ma v’è da aggiungere che, anche prescindendo da queste considerazioni, la sentenza impugnata ha ampiamente e logicamente motivato sui poteri decisionali attribuiti all’epoca all’imputato in merito alla possibilità di far percorrere di corsa le salite già indicate. Non si tratta di affermazione apodittica ma di accertamento compiuto in base agli elementi di prova acquisiti al processo dai quali risultava che negli anni successivi al 2004 era stato R. a decidere le modalità di percorrenza delle salite e ad eliminare tratti di percorrenza pericolosi. Non senza ricordare la decisiva osservazione contenuta nella sentenza impugnata (a p. 14) che, anche a voler ammettere un convergere di competenze per la gestione delle modalità del traino e della percorrenza R. era l’unico “ad avere in concreto ed in tempo reale la percezione della situazione di fatto e delle modalità operative con cui la scansione dei vari momenti della processione potesse essere conciliata, alla stregua della situazione fattuale, con il rispetto della tradizione”.
In conclusione: è stato R. con la sua condotta positiva a innescare il meccanismo causale che ha condotto al verificarsi dell’evento mortale. Ma se anche dovesse ragionarsi in termini di causalità omissiva è stato incensurabilmente accertato nei giudizi di merito che egli rivestiva una posizione di garanzia diretta a tutelare l’incolumità dei partecipi alla manifestazione in condizioni di sicurezza e deve comunque rispondere delle conseguenze delle inidonee modalità adottate che rientravano nelle competenze attribuitegli.
VI) La colpa. Premessa.
Premesso che l’evento è riferibile alla condotta attiva di A. – che ha dato il via alla partenza di corsa del fercolo innescando il meccanismo di cui si è detto – va valutato se i giudici di merito abbiano adeguatamente e logicamente motivato sulla natura colposa di questa condotta.
Su tale punto, v’è solo da osservare che appare del tutto conseguente all’accertamento svolto l’aver ritenuto, i giudici di merito, gravemente imprudente (e imperita) la condotta dell’imputato che ha dato il via alla partenza del fercolo a passo di corsa senza attendere che lo spazio all’interno del corridoio creatosi tra le funi utilizzate per il trasporto del mezzo venisse completamente sgombrato.
Ovviamente la colpa ha natura generica non essendo applicabili alla manifestazione del tipo di quella che si svolge annualmente nella città di Catania, in onore della sua patrona, le regole cautelari specifiche contenute nel codice della strada; non è infatti, il trasporto del fercolo, equiparabile alla conduzione di un veicolo per la diversità del contesto rispetto a quello della circolazione stradale.
Ma appare del tutto logico l’argomentare dei giudici di merito che hanno contestato all’imputato la scelta più volte ricordata di far trainare di corsa un mezzo pesante 20 tonnellate senza che il percorso predeterminato fosse libero da persone tanto più che il mezzo era sostanzialmente privo di un sistema frenante (o comunque disponeva di un sistema del tutto inidoneo). E altrettanto logica è la valutazione di prevedibilità della circostanza che l’improvvisa messa in movimento avrebbe provocato panico e movimenti inconsulti da parte delle persone presenti nel corridoio.
Né può dirsi che l’evento non fosse evitabile con l’uso di una condotta prudente e diligente: era sufficiente che si attendesse, per dare il via, che il corridoio venisse sgombrato.
VII) Il rischio consentito. In generale.
Come si è accennato nelle premesse il ricorrente, con il terzo motivo, si duole del mancato inquadramento del caso in esame nella categoria del rischio consentito in relazione al quale occorrono alcune considerazioni preliminari.
Com’è noto esistono attività lecite “pericolose” nelle quali gli eventi dannosi sono in larga misura prevedibili e non sempre evitabili. Ciò non ostante, l’ordinamento le autorizza, per la loro elevata utilità sociale, nell’ambito del c.d. “rischio consentito”.
Può trattarsi anche della medesima attività che, in determinate condizioni viene autorizzata e in altre vietata (per es. le corse automobilistiche vietate nelle strade ordinarie e consentite nei circuiti) spesso per ragioni di natura economica o commerciale ovvero per ragioni che mirano ad estendere le conoscenze scientifiche (si pensi alle attività di esplorazione spaziale).
Anzi è largamente diffusa in dottrina l’opinione secondo cui “una zona di rischio consentito, sia pure di estensione variabile secondo i casi, accompagna tutte le attività lecite, anche quelle che si ritrovano nelle società pre-industriali”. E v’è chi ricostruisce unitariamente il concetto di rischio consentito ai fini penali sia per quanto riguarda i reati colposi che quelli dolosi.
Quanto all’origine dell'”attività pericolosa” (che nel diritto civile comporta una sostanziale inversione dell’onere della prova: art. 2051 cod. civ.) si possono richiamare le caratteristiche indicate dalla giurisprudenza civile di legittimità che le ha individuate nella pericolosità intrinseca, in quella dipendente dalle modalità di esercizio e in quella derivante dai mezzi adoperati (caratteristiche che non devono necessariamente coesistere).
Con larga approssimazione può affermarsi che, nelle attività pericolose, ad un più elevato grado di prevedibilità di eventi dannosi corrisponde anche un minor grado di prevenibilità dei medesimi mentre l’osservanza delle regole cautelari non può che tendere ad una riduzione del pericolo che però non può, di norma, essere eliminato; le relative regole cautelari sono quindi regole cautelari “improprie” (che tendono a ridurre e non ad eliminare il rischio).
Al di là delle attività vietate tout court – perché ritenute socialmente non utili (o di utilità non così rilevante da consentire l’assunzione del rischio) – le attività pericolose vengono consentite con un bilanciamento di interessi idoneo a conseguire un equilibrio tra rischio assunto e benefici conseguibili e con una valorizzazione dell’obbligo di osservanza delle cautele correlato all’importanza dei beni in discussione (un rischio elevatissimo sarà consentito solo per salvaguardare beni fondamentali: si pensi ai vigili del fuoco che, a rischio della loro vita e qualche volta senza osservare le più elementari regole di prudenza, intervengono per salvare vite umane esponendo se stessi al rischio di perdere la vita).
La regola del bilanciamento tra gli interessi contrapposti costituisce la chiave di volta per individuare l’eventuale superamento del rischio consentito: superamento che sarà ammesso solo per la tutela di beni di pari o superiore valore. Per esemplificare: l’istruttore di alpinismo non risponderà degli eventi dannosi verificatisi malgrado il rispetto rigoroso di tutte le regole cautelari che disciplinano questa attività pericolosa. Risponderà invece dei danni provocati, per es., se non ha controllato che venga utilizzata attrezzatura idonea e sufficiente o se ha sottoposto i suoi allievi a prove superiori alle loro capacità se da queste difficoltà deriverà un evento dannoso (anche se adotterà le cautele adeguate a queste difficoltà non affrontabili però dai suoi allievi).
È ancora da sottolineare che nel bilanciamento non può non essere presa in considerazione la circostanza che la persona offesa si sia autoesposta al pericolo ovvero il medesimo sia stato provocato da altri e a questo rischio l’agente abbia o meno accettato di esporsi.
Il criterio del bilanciamento costi-benefici è ineliminabile anche nell’attività medico chirurgica che spesso si caratterizza proprio per la necessità di operare una scelta tra il rischio e gli effetti negativi derivanti da una scelta terapeutica rispetto ad un’altra. E ciò non solo nei casi di interventi chirurgici ad elevato rischio ma altresì nelle terapie con farmaci che inducono pesanti effetti collaterali. Nel caso di eventi negativi derivanti dall’opzione prescelta il giudice dovrà valutare con criterio ex ante che la scelta sia stata operata seguendo linee guida consolidate e non in modo irragionevole e non potrà essere ritenuto responsabile il medico che a questi criteri si sia attenuto.
È stato anche affermato che la prevedibilità nelle attività pericolose a rischio consentito discende “da una valutazione naturalistica, statistica, sociologica delle caratteristiche materiali dell’attività intrapresa” mentre la prevedibilità cui rinvia il giudizio di colpa è una nozione normativa nel senso che “l’evento è prevedibile, quando l’agente modello può coglierlo in potenza già nel primo disattendere alla cautela dovuta”.
È opportuno ribadirlo: “rischio consentito” non significa esonero dall’obbligo di osservanza delle regole di cautela ma semmai rafforzamento: solo in caso di rigorosa osservanza di tali regole il rischio potrà ritenersi effettivamente “consentito” per quella parte del rischio che non può essere eliminato. Insomma l’osservanza delle regole cautelari esonera da responsabilità per i rischi prevedibili ma non prevenibili solo se l’agente abbia rigorosamente rispettato le regole cautelari anche se non è stato possibile evitare il verificarsi dell’evento.
È sufficiente un semplice esempio per avere conferma di questa tesi: le corse automobilistiche vengono consentite in circuiti nei quali è ovviamente autorizzato il superamento dei limiti ordinari di velocità. Ma proprio per questo maggiore rischio (consentito) le misure di sicurezza che vengono richieste sono ben più severe a protezione sia degli automobilisti (i materiali e le protezioni delle autovetture devono rispettare i gradi più elevati di sicurezza) sia degli spettatori che vengono allocati in luoghi al sicuro da eventuali incidenti.
Nel caso di attività vietata invece l’unica regola cautelare da seguire è l’astensione (regola cautelare “propria”): se il legislatore l’ha vietata vuoi dire che non ha ritenuto, nel bilanciamento di interessi di cui si è detto, che l’attività fosse di una qualche utilità o che i benefici fossero tali da compensare i pericoli. L’agente che agisca in violazione del divieto risponde quindi delle conseguenze verificatesi anche se rispetta le eventuali regole cautelari dettate dall’esperienza (o regole cautelari specifiche preesistenti al divieto) perché questo obbligo non viene meno nel caso di svolgimento di attività illecite o vietate.
Non è necessario che l’attività pericolosa sia consentita normativamente; la sua utilità sociale può derivare anche dal riconoscimento tacito dell’uso da parte della comunità. Tra le attività pericolose consentite vanno però distinte quelle espressamente autorizzate perché spesso, nel provvedimento autorizzativo, sono indicate anche le modalità di esecuzione dell’attività e le cautele da adottare perché possano essere svolte con la massima riduzione possibile dei rischi insiti nell’attività. In questi casi, come è stato affermato in dottrina, “è ben possibile che si rilevino con maggiore sicurezza e chiarezza le eventuali ipotesi di penale responsabilità per violazione degli obblighi di prudenza e diligenza”.
Alcune attività pericolose sono addirittura obbligatorie o necessitate (si pensi alle attività di contrasto dei disastri o della criminalità, ma anche all’attività medico chirurgica d’urgenza) e in questi casi avviene talvolta che la necessità improrogabile dell’attività possa ridurre l’esigibilità dell’osservanza delle regole nei limiti di una valutazione comparativa (spesso da operare nell’immediatezza e quindi con un più ampio margine di errore) tra costi e benefici (si pensi al comandante di un reparto di vigili del fuoco che deve scegliere tra il sottoporre i suoi uomini ad un elevato rischio per la loro vita per salvare persone intrappolate da un incendio e l’astensione dall’attività di soccorso; o all’intervento della polizia giudiziaria nel corso delle attività di contrasto di azioni criminali).
Proprio perché si tratta di attività pericolose – e proprio perché l’ordinamento accetta l’esistenza ineliminabile del margine di rischio – la persona alla quale è attribuita una posizione di garanzia o di tutela nella salvaguardia di beni primari ha un obbligo di ancor maggiore intensità, nello svolgimento delle attività medesime, di ridurre il margine di rischio nei limiti più ristretti che le conoscenze scientifiche, le nozioni di comune esperienza e le disponibilità di materiali utilizzabili consentono. Per fare un esempio: chi organizza soccorsi in alta montagna deve non solo addestrare adeguatamente i soccorritori ma dotarli del materiale più idoneo ad evitare rischi alle persone addette a questa attività altruistica ma pericolosa. Se a questo obbligo avrà adempiuto non potrà certo rispondere di eventi derivati da circostanze prevedibili e dalle conseguenze non prevenibili nelle condizioni in cui l’attività si svolge.
Parimenti nelle attività di contrasto alla criminalità le persone preposte dovranno dotare chi è esposto al rischio di conflitti a fuoco delle attrezzature idonee (armi adeguate, giubbotti antiproiettile ecc.) a ridurre nei limiti del possibile il rischio ineliminabile.
In definitiva, nelle attività pericolose consentite, proprio perché la soglia della prevedibilità è più alta, nel senso che gli eventi dannosi si verificano con maggiore frequenza (e spesso si tratta di eventi in minor misura evitabili) rispetto alle attività comuni, maggiore deve essere il livello di diligenza, prudenza e perizia nel precostituire condizioni idonee a ridurre il rischio consentito nei limiti del possibile.
Quindi ineliminabilità del rischio non corrisponde ad un’attenuazione dell’obbligo di garanzia (o di tutela dei beni) ma semmai ad un suo rafforzamento secondo i criteri che si ispirano all’utilizzazione delle regole suggerite dalla migliore scienza ed esperienza. Nel caso di conoscenze scientifiche limitate o incomplete a fronte di rischi elevati, la regola dovrà essere, in linea di massima, quella dell’astensione. In questo senso si è ribadito in dottrina che “in settori dove le conoscenze nomologiche non abbiano raggiunto un livello in grado di assicurare un siffatto soddisfacente controllo dei pericoli, ci si dovrà generalmente astenere dall’attività o almeno esporre ai suoi possibili effetti dannosi beni giuridici di valore proporzionato all’efficacia delle cautele adottabili”.
VIII) Il rischio consentito nel caso in esame.
Alla luce delle considerazioni svolte e dei principi enunciati si deve escludere che la condotta dell’imputato possa essere ritenuta scriminata in base al principio del rischio consentito.
Può consentirsi con le argomentazioni contenute nel ricorso con le quali si ricollegano le manifestazioni di natura religiosa del tipo di quelle in onore di S. Agata ad un aumento consentito del rischio in virtù di tradizioni storiche, religiose, culturali ecc. Parimenti condivisibile è l’inquadramento nel rischio consentito dell’uso – da ritenere pertanto consentito – del fercolo, un mezzo il cui trasporto sarebbe ovviamente vietato con l’adozione delle regole ordinarie di circolazione.
Ed è questo il punto della questione: se le regole della tradizione ed in particolare della tradizione storico religiosa possono consentire che si aumenti il rischio di eventi dannosi (rischio consentito) utilizzando mezzi non consentiti nell’ordinaria circolazione e il loro passaggio in ambiti dove si accalcano migliaia di persone e addirittura che si percorrano tratti di corsa legando i cavi al mezzo (tutte cose che non sarebbero consentite se non vi fosse il peso della tradizione che le legittima) e da ritenere del tutto conseguente che gli eventi dannosi – ampiamente prevedibili – debbano essere prevenuti con l’adozione delle misure cautelari esigibili atte ad evitare tali eventi.
Non è condivisibile, al contrario, l’affermazione che regole cautelari di maggior severità potrebbero essere introdotte esclusivamente dal legislatore. Non si tratta infatti di attività normativa ma dell’usuale compito che il legislatore attribuisce al giudice di riempire di contenuto le regole cautelari generiche (colpa generica) quando non ritenga di dettarne di specifiche (colpa specifica).
Ma, nel caso in esame, v’è ancora da considerare che neppure può parlarsi della mancata adozione di regole cautelari più severe perché quella violata dall’imputato (non si mette in movimento un mezzo del peso di venti tonnellate, dotato di un sistema frenante inidoneo, quando sul percorso si trovano numerosissime persone) costituisce una banale regola di prudenza e non certo un regola cautelare rafforzata che richieda un maggior grado di osservanza di una regola cautelare base.
Si è visto che nei circuiti automobilistici vanno adottate regole cautelari rafforzate (per es. gli spettatori non possono stazionare ai margini della pista) che nessuno si sognerebbe di adottare sulle strade ordinarie; ma anche in questi circuiti non si può certo dare il via alla gara fino a che gli addetti si trovano sul percorso.
In conclusione tutti i motivi di ricorso che riguardano la penale responsabilità dell’imputato devono essere rigettati.
IX) I motivi di ricorso dell’imputato sulle statuizioni civili.
Nel ricorso dell’imputato sono contenute varie censure riguardanti le statuizioni civili contenute nella sentenza di primo grado e confermate dal giudice d’appello.
A) Il primo problema proposto riguarda il concorso di terzi nella responsabilità per l’evento verificatosi. Si dice, nei motivi, che i giudici di merito avrebbero dovuto tener conto delle condotte colpose (peraltro riconosciute) di altri soggetti (in particolare i responsabili del Comune e della Questura di Catania) che hanno contribuito a cagionare l’evento per le evidenti carenze nel servizio d’ordine pubblico.
Per dare una risposta a questo quesito va premesso che la responsabilità per fatto illecito – quando la responsabilità sia attribuibile o attribuita a più soggetti – ha natura solidale e ciò comporta che ciascuna delle persone che hanno contribuito, colposamente o dolosamente, a cagionare l’evento risponde per l’intero restando irrilevante, nei confronti del danneggiato la diseguale efficienza causale delle singole condotte.
Il principio è stabilito in modo inequivocabile sia dall’art. 187 comma 2 cod. pen. che dall’art. 2055 cod. civ. e la giurisprudenza civile di legittimità l’ha ripreso più volte (si vedano, esemplificativamente, tra le più recenti, Cass., sez. III,.17 maggio 2010 n. 11952; 12 marzo 2010 n. 6041; 12 febbraio 2008 n. 3267; 9 agosto 2007 n. 17475; sez. I, 7 giugno 2006 n. 13272; sez. II, 25 ottobre 2005 n. 20646; sez. III, 22 luglio 2005 n. 15431).
In queste decisioni si è più volte precisato che la responsabilità solidale è volta a rafforzare la garanzia del danneggiato e non ad alleviare la responsabilità degli autori dell’illecito pur nei casi nei quali il fatto dannoso sia derivato anche da più azioni od omissioni, dolose o colpose, costituenti fatti illeciti distinti e diversi, purché siano legate da un vincolo di interdipendenza e abbiano causalmente contribuito alla produzione del danno anche se non sia stata accertato in quale misura ciascuno degli agenti abbia contribuito alla verificazione dell’evento.
La giurisprudenza penale di legittimità ha avuto meno occasioni di affrontare questi temi e l’unico precedente (per quanto consta) che abbia affrontato il tema della ripartizione interna della responsabilità tra i vari corresponsabili si è espresso nel medesimo senso delle sezioni civili (v. Cass., sez. IV, 1 giugno 1989 n. 13274, Coriale, rv. 182217) ritenendo non consentita la ripartizione delle responsabilità nel processo penale nel caso di condotte indipendenti che abbiano contribuito a cagionare l’evento. Permane invece un dissenso (peraltro su un tema irrilevante nel presente giudizio) sulla possibilità di emettere condanna solidale al risarcimento dei danni nei casi in cui i reati siano diversi (per la risposta negativa v. Cass., sez. II, 26 marzo 2010 n. 15285, Pieropan, rv. 247036; sez. I, 5 dicembre 2000 n. 7671, Patteri, rv. 218310; contra sez. V, 18 gennaio 2007 n. 18656, Boni, rv. 236915).
B) Le censure che riguardano la liquidazione del danno non patrimoniale riguardano tre aspetti del problema: 1) la possibilità di fare ricorso alla prova presuntiva in mancanza di alcuna prova o allegazione da parte delle parti civili; 2) la possibilità di fare ricorso, per la liquidazione del danno non patrimoniale, alle tabelle usualmente utilizzate dalla giurisprudenza civile per la liquidazione del danno biologico; 3) l’aver utilizzato per la liquidazione i valori massimi previsti dalle tabelle senza specifica e adeguata motivazione.
Quanto al primo aspetto soccorre, anche in questo caso, l’evoluzione della giurisprudenza civile di legittimità che ha in più occasioni ritenuto consentita la prova per presunzioni del danno non patrimoniale (si vedano Cass., sez. III, 19 dicembre 2008 n. 29832, rv. 606432; 27 luglio 2006 n. 17144, rv. 593166; 12 giugno 2006 n. 13546, rv. 593005; 15 luglio 2005 n. 15022, rv. 584725). La sentenza di primo grado, confermata da quella d’appello, ha adeguatamente motivato sul punto richiamando lo stretto rapporto familiare tra le parti civili e la vittima (si tratta di genitori, coniuge, figli e sorella) e l’inesistenza di prove dell’esistenza di una situazione familiare disgregata o comunque di disagio.
Quanto all’utilizzazione delle tabelle la giurisprudenza civile di legittimità è uniforme nel ritenere utilizzabili le c.d. tabelle anche per la liquidazione del danno non patrimoniale derivante da morte di prossimi congiunti: v. Cass., sez. III, 17 dicembre 2009 n. 26505, rv. 610500; 28 novembre 2008 n. 28423, rv. 606101; 9 novembre 2006 n. 23918, rv. 592752; 12 luglio 2006 n. 15760, rv. 591705; sez. lav., 12 maggio 2006 n. 11039, rv. 589068).
Parimenti adeguata è la motivazione sul punto concernente la quantificazione del danno; anche in questo caso la motivazione delle sentenze di merito si sottrae alle censure proposte perché sono stati valorizzati, certo non illogicamente, gli aspetti che facevano propendere per una liquidazione del danno in termini più significativi: l’età assai giovane della vittima (22 anni), la presenza di due figli in tenera età privati della presenza del genitore per tutta la vita, la particolare emozione cagionata da una morte avvenuta in modo inaccettabile durante un’attività svolta per devozione.
C) Infondate sono anche le censure che si riferiscono alla liquidazione del danno patrimoniale per il quale la giurisprudenza civile di legittimità è parimenti orientata nel senso che sia consentita la prova per presunzioni (v. Cass., sez. I, 2 settembre 2008 n. 22061, rv. 604790; 3 aprile 2008 n. 8546, rv. 602633 con il riferimento al danno morale dei prossimi congiunti di persona che ha subito gravissime lesioni invalidanti; sez. II, 20 novembre 2007 n. 24140, rv. 600698 con riferimento al danno patrimoniale da inadempimento; sez. III, 24 agosto 2007 n. 17977, rv. 598984).
Ed è stato ribadito che è risarcibile anche il danno patrimoniale futuro in relazione ai danni subiti da chi non presti attività lavorativa (per es. perché minore) quando le concrete caratteristiche del caso consentano di affermare una futura presumibile diminuzione della capacità lavorativa e della capacità di guadagno (v. Cass., sez. III, 15 luglio 2008 n. 19445, rv. 604277; 25 gennaio 2008 n. 1690, rv. 601472; 18 settembre 2007 n. 19357, rv. 599390) ovvero, nel caso di morte del minore, sia possibile affermare, anche per mezzo di presunzioni semplici, che il figlio deceduto avrebbe contribuito ai bisogni della famiglia (v. Cass., sez. III, 14 febbraio 2007 n. 3260, rv. 598218).
Anche sotto questo profilo la sentenza impugnata ha preso atto della circostanza che – pur non essendo stata fornita dalle parti civili la prova dello svolgimento di un’attività lavorativa da parte della vittima – era possibile ritenere esistente il danno patrimoniale futuro con l’uso di presunzioni perché, tenendo conto della sua giovane età e della sua modesta scolarizzazione, era verosimile che potesse trovare “soddisfacenti occasioni lavorative, sia pure nell’ambito delle aspettative medie di una famiglia di ceto popolare” e ha affermato altresì, sempre in base ad una non illogica presunzione, che la vittima avrebbe destinato una parte dei futuri introiti lavorativi ai propri familiari (si tenga peraltro presente che già il primo giudice aveva escluso il danno patrimoniale per i genitori liquidandolo solo al coniuge, ai figli e, in misura assai modesta, alla sorella).
X) I ricorsi delle parti civili.
I ricorsi delle parti civili riguardano, in buona sostanza, l’esistenza del concorso di colpa della vittima e la sua quantificazione.
Sotto il primo profilo le sentenze di merito hanno adeguatamente motivato sull’esistenza di una condotta imprudente posta in essere da parte di F.C.R. che, malgrado i numerosi segnali inviati da R. (in particolare il suono della campanella che preavvisava della partenza e le “false partenze” effettuate) è rimasto all’interno del corridoio come altre numerose persone incuranti degli avvisi che rendevano conoscibile e prevedibile il pericolo di una messa in movimento del fercolo a passo di corsa accettando tacitamente, come l’imputato, “uno schema pericoloso riconducibile alla tradizione”.
Trattasi di valutazione che attiene al merito e che, non presentando alcun elemento di illogicità, si sottrae al vaglio di legittimità.
Parimenti esente da alcuna illogicità è la quantificazione del concorso di colpa determinato, dal primo giudice (con valutazione condivisa da quello d’appello) nel cinquanta per cento. I giudici di merito hanno richiamato la gravità dell’imprudenza commessa dalla vittima e anche questa valutazione, non apparendo illogica, non può essere censurata dal giudice di legittimità trattandosi di tipica valutazione di merito.
XI) Conclusioni.
Alle considerazioni in precedenza svolte consegue il rigetto dei ricorsi con la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali oltre al regolamento delle spese tra le parti come da dispositivo.
P.Q.M.
la Corte Suprema di Cassazione, Sezione IV penale, rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Condanna R.A. alla rifusione, in favore delle costituite parti civili, delle spese di questo giudizio; liquida quelle in favore di N.V.R. , F.C.A. e C.F.C. , unitariamente e complessivamente, in Euro 3.000,00 oltre accessori come per legge; quelle in favore di C.R.A. , F.C.F. e FE.CA.FR. , unitariamente e complessivamente, in Euro 3.000,00 oltre accessori come per legge