Ci sono, ma stanno lentamente scomparendo, alcune zone franche in cui le normali regole giuridiche, sia civili che penali, sembrano attenuate. Comportamenti che in altri ambiti costituirebbero un reato o comunque sarebbero vietati, diventano permessi, o almeno tollerati. Si pensi allo sport, che ha regole proprie che non sempre coincidono con la legislazione. Si pensi alla scuola in cui, fino a pochi decenni fa, era consentito, in nome dei principi educativi, picchiare od offendere uno studente senza che questi potesse «difendersi». Si pensi al fenomeno del «nonnismo» fra i militari di leva.
Anche nel mondo del lavoro c’era qualche zona grigia, soprattutto riguardo alla tutela del benessere psicofisico del lavoratore. Era opinione comunemente accettata che il datore di lavoro potesse, ovviamente entro certi limiti, trattar male un dipendente, fare discriminazioni, gratificare e penalizzare a suo piacimento. La parola «mobbing» non era stata ancora inventata.
Il primo ad usarla in riferimento ai maltrattamenti psicologici nei luoghi di lavoro, da parte sia del datore di lavoro che dei colleghi, è stato lo psicologo tedesco Heinz Leymann che nel 1986 ha approfondito l’argomento in un suo libro.
La sensibilità sociale su questo tema si è sempre più accentuata, e dopo una decina d’anni anche in Italia sono giunte le prime sentenze in cui sono stati condannati, al risarcimento dei danni o al reintegro nel posto, i datori di lavoro che con i loro comportamenti vessatori e persecutori avevano spinto un loro dipendente a dimettersi o gli avevano procurato gravi danni alla salute ed all’equilibrio psichico.
I sindacati hanno affilato le armi, molti parlamentari hanno presentato, negli ultimi anni, proposte di legge che prevedevano norme più rigide per difendere il lavoratore dai casi di mobbing. Ma finora nessuna è riuscita a tagliare il traguardo dell’approvazione definitiva. Comunque le leggi in vigore sono sufficienti per offrire al mobbizzato efficaci mezzi di difesa.
I motivi che possono essere alla base di un caso di mobbing sono i più vari: invidia, antipatia, vendetta, diversità di razza o di opinioni politiche e religiose, desiderio di affermarsi schiacciando gli altri. Ci può anche essere una motivazione sessuale e in tal caso il mobbing consiste in molestie, apprezzamenti volgari, corteggiamenti pesanti e sgraditi.
Ma il più delle volte, come risulta dai più recenti studi in materia, le motivazioni sono legate non ad aspetti psicologici ma a problemi occupazionali o alla volontà da parte dell’azienda di ridurre gli organici.
Individuati i soggetti deboli o più vicini alla pensione o non inseriti nella logiche di cordata all’interno dell’azienda, il datore di lavoro avvia una serie di azioni, continue e protratte nel tempo, che portano il dipendente a sentirsi sempre più isolato, emarginato, frustrato. Il mobbing viene attuato dai vertici aziendali, utilizzando le strutture gerarchiche e spesso coinvolgendo i colleghi del mobbizzato i quali, il più delle volte inconsapevolmente, si fanno complici delle strategie dell’azienda e contribuiscono con critiche, pettegolezzi e maldicenze a fare terreno bruciato intorno alla vittima designata.
Se il lavoratore bersaglio dei maltrattamenti cerca di reagire, l’azienda si accanisce ulteriormente, in una spirale sempre più perversa. La vittima comincia a soffrire di insonnia, perde l’appetito, si chiude in se stesso. Se le vessazioni continuano, dopo uno o due anni lo stato di ansia diventa cronico, intervengono depressione, fobie, ossessioni. Il mobbizzato ricorre ai tranquillanti, perde la fiducia in se stesso, si assenta spesso dal lavoro. L’azienda a questo punto spesso favorisce le azioni di mobbing per cercare di liberarsi del lavoratore ormai diventato scomodo. Se la situazione si protrae ulteriormente, la vittima può ammalarsi di varie patologie, anche gravi e non solo di carattere neurologico. E spesso alla fine getta la spugna e si licenzia.
Un avvocato tempo fa mi raccontava di aver incontrato in un posto di lavoro un impiegato che da mesi era da solo in una stanza, con soltanto una sedia, senza la scrivania o il telefono. Dopo qualche anno è morto. Certo, questi sono casi estremi e tutt’altro che frequenti, ma se non sempre il mobbing porta a malattie gravi o addirittura alla morte, causa sicuramente alla vittima disagio psicologico e sofferenze.
Però ora qualcosa è cambiato: sempre più spesso il lavoratore si rivolge ai sindacati, apre una vertenza per chiedere il risarcimento dei danni, ottiene sentenze favorevoli e viene reintegrato nel posto di lavoro per ordine del giudice.
Per l’azienda le azioni di mobbing, anche se attuate consapevolmente e con obiettivi precisi, si rivelano il più delle volte un boomerang. Durante la fase dei maltrattamenti psicologici si determina un calo di efficienza e di produttività che ha pur un costo. E dopo l’esodo del lavoratore «scomodo» l’azienda si trova spesso di fronte alla richiesta del risarcimento dei danni, a volte per cifre molto elevate.
Il mobbing cosiddetto «orizzontale» (quello cioè attuato fra colleghi, senza che sia stato istigato da una strategia aziendale), è ancora più oneroso per il datore di lavoro, che avrebbe tutto l’interesse a prevenirlo e combatterlo, perché in questo caso subisce solo perdite, senza trarne alcun vantaggio.
Ma anche il lavoratore dovrebbe meditare a lungo prima di presentare una denuncia per mobbing. Se non riuscisse a provare le vessazioni subite, potrebbe a sua volta essere condannato. Nel gennaio 2000 infatti la Cassazione, in una vertenza fra la «Henkel Spa» e un suo dipendente, ha deciso che l’impossibilità di provare gli addebiti legittima il datore di lavoro anche al licenziamento, per «vulnerazione del requisito fiduciario» insito nel rapporto di lavoro, a seguito di un addebito risoltosi in diffamazione o denigrazione di un responsabile aziendale.